Un libro dove giornalisti, scrittori, sindacalisti, docenti universitari e tante realtà associative del territorio, sono stati chiamati a collaborare per descrivere le contraddizioni del modello veneto di sviluppo dal punto di vista ambientale. Il volume è a cura di Francesco Miazzi, del Comitato Lasciateci Respirare di Monselice e pubblicato da Tracciati editore. Vi proponiamo una articolata recensione di Lauso Zagato, articoli, foto, eventi e presentazioni.
“Come le strope” lo puoi trovare nelle librerie della Bassa Padovana, al Parco Buzzaccarini o alla bottega del Colibri a Monselice, oppure è acquistabile online WWW.TRACCIATI.EU
“Come le strope“: alcune riflessioni al margine di un volume di recente pubblicazione. A cura di Lauso Zagato.
Ho finalmente avuto l’occasione di leggere di fila, senza soluzione di continuità, Come le strope,[1] e mi sono venute alla mente una serie di considerazioni che la prima lettura, basata sui singoli saggi che compongono il libro – con relative pause di riflessione tra i diversi pezzi – non aveva consentito. Provo a porle per scritto, cominciando proprio dalle strope[2]. Il richiamo alla stropa contribuisce a radicare la continuità del luogo e del tempo, nel senso di evoluzione lineare combinata, delle varie parti del testo, tiene insieme una congerie di temi e interventi altrimenti diversi. La bassa come unica grande “stropara” insomma …
Approfondiamo un po’: prima di tutto, e questo è un titolo di merito a tutto tondo, l’unità di luogo va qui intesa come riferita ad un luogo sociale, produttivo di vita e di modifica degli ambienti (e da questi a sua volta ri-prodotto e modificato), non come mera nostalgia di un paesaggio naturale (immaginario) preesistente all’attività umana. Insomma, non c’è spazio per un pericoloso approccio dualistico uomo/natura. Ciò al punto che anche quei contributi i quali, isolatamente considerati, potrebbero riferire in qualche passaggio al richiamo di un ambiente euganeo di fiaba che non c’è più, quasi una natura benigna distrutta dall’uomo, risultano comunque funzionali ad una narrazione incentrata sul presente. Invero, anche quando sembra esserci il rischio della nostalgia impossibile di una natura non antropizzata, troviamo piuttosto una puntuale indagine della violenza e della follia del concreto intervento capitalistico sul nostro ambiente[3]. Vi è anche da dire che l’idiozia criminale di tale intervento, in particolare nell’ultimo mezzo secolo, trasuda dalle pagine, e lascia a volte esterrefatti. Sapevamo tutti del progetto, mai del tutto abbandonato, di ascensore sotto la Rocca, e dello sconquasso causato dalle prime tappe di un percorso di avvicinamento per fortuna andato a vuoto. Ho potuto finalmente capire bene dalla lettura la questione degli inceneritori a pollina[4], di cui avevo vaghissima cognizione: anche questo è un momento di progettazione distruttiva ad un tempo straordinario e vergognoso, come altri lungo il volume[5].
LA PRIMA PARTE
Venendo al merito, la prima parte ci introduce, attraverso i “fotogrammi di una regione sfigurata”, al disastro veneto, inquadrandolo anche temporalmente. Mose, siccità, rovina del paesaggio, primi accenni al Pfas. Il richiamo di Francesco Jori alla denuncia risalente da parte di Domenico Luciani[6] è un po’ il collante. Lo stesso Jori parla di villettopoli (richiamando i “non-luoghi” di M. Augé), altri di capitalismo molecolare[7], mentre le cupe vicende del Piano morfologico elaborato nel 1992 per il Mose[8], pur risapute, ci fanno ancora fremere[9]. La prima parte si chiude con l’originale contributo di Fulvio Ervas sul ruolo della letteratura nella denuncia dei crimini ambientali, attraverso il personaggio dell’ispettore della Questura di Treviso Stucky. Pur se il tono soft di tale contributo non convince sempre del tutto, esso risulta molto efficace nel richiamo alla c.d. rivoluzione verde degli anni ’60. Soprattutto, come il primo saggio si chiude con un drammatico richiamo alla realtà dell’antropocene (p. 34), quest’ultimo offre (p. 70) un diretto quanto esplicito richiamo alla questione del rapporto tra noi e le altre specie animali. Tramite questi due passaggi è l’intera prima parte, a mio avviso, che acquista centralità nel dibattito politico/scientifico generale: o meglio, vede aperta la via al concreto riconoscimento della centralità del proprio contenuto[10].
LA SECONDA E TERZA PARTE
Le parti seconda e terza ci conducono, in un viaggio temporale, ad attraversare lo sviluppo delle lotte ambientali nella bassa padovana in genere, e in particolare genesi e sviluppo del Comitato “Lasciateci respirare”. Anche gli interventi dedicati alle questioni più risalenti portano in dotazione saperi e notizie preziose. Sulla compatta ostilità iniziale dell’ambiente ecclesiastico al parco dei Colli euganei, ad esempio, Adriano Resente ci dice cose che vari tra noi ignoravano, o conoscevano solo in piccola parte; tasselli utili sono posti anche da altri interventi che pur presentano un lato di cronaca. Ovviamente un ruolo centrale assume il testo di Francesco Miazzi che inaugura la terza parte, dedicato alle lotte nella capitale dei cementifici, facendo da sostegno a tutta la parte centrale del libro. Descrive una storia tuttora aperta, ricca di vittorie rese spesso vane, o comunque insidiate, da nuovi attacchi da parte dei cementieri, in generale direi dei poteri estrattivisti. En passant vengono raccontati episodi troppo spesso dimenticati, che possono ben stare alla pari con l’ascensore sulla Rocca, il McDonald in Piazza Mazzini, i bio-inceneritori a pollina. Si va dal progetto di bruciare (e diffondere nell’aria) le c.d. farine animali infette, introdotto a suo tempo da Italcementi, all’ineffabile sentenza del CS del 17 gennaio 2012 in cui la trasformazione del cementifici in co-inceneritori, in particolare l’erezione nella nostra zona da parte di Italcementi di una torre alta 90 metri costituirebbe un semplice adeguamento tecnologico, potendo anzi venire considerata un manufatto “di qualità architettonica apprezzabile, in linea con le tendenze dell’architettura contemporanea” (sic!). Documenti preziosi, a futura memoria!
Un particolare rilievo, nel corpo centrale del volume, gioca a mio parere l’intervento di Paolo De Marchi sugli anni ’80[11], tanto lontani e vicini nel contempo. Il suo intervento copre quel periodo iniziale in cui gli “autonomi” della bassa prendendo consapevolezza della centralità della tematica ambientale, dapprima nel loro territorio, poi in termini più generali, si riavvicinano ad altre esperienze di origine diversa (talora molto diversa) aprendo la via ai cicli successivi di lotte, e affiancando tale percorso ad una puntuale consapevolezza antinucleare (e antiimperialista). In questo ri-attraversamento, pone in evidenza l’importanza di un convegno a Monselice dei primi anni ’80, meritevole magari (mi permetterei di suggerire) di una rievocazione ad hoc, ove ce ne sia il modo. Il saggio stabilisce anche un collegamento proficuo con la fase che precede gli anni ‘80, l’esperienza politica dell’operaismo nella bassa padovana nel decennio precedente (pp. 104-105). Ovviamente parlo per interesse anche personale, dal momento che il volume dedicato a tale prima esperienza uscito qualche anno fa accennava al suo carattere di origine di esperienze successive, anche se in nessun modo di paternità[12]. Mi pare che tale lettura esca confermata dall’intervento di Paolo De Marchi, e riaccennato anche in seguito nell’intervento di Gianni Boetto nell’ultima parte del volume. Un non minore interesse ha suscitato in me un altro punto del contributo di De Marchi, e ci tornerò più avanti.
LA QUARTA PARTE
L’ultima parte, dal titolo “Voci dai territori” è decisamente attuale, anche nel momento in cui racconta le origini risalenti di ADL[13]. Sono, tutti, interventi che testimoniano di evoluzione di organismi di movimento, di drammatiche sconfitte (mi ha colpito in particolare la conclusione dell’esperienza del Moraro[14]), di vittorie di cui andiamo tutti fieri. Richiamerò l’intervento sugli allevamenti intensivi quando riprenderò il mio; abbiamo i contributi sulla discarica di S. Urbano, sulle mamme no Pfas, su Monteortone, teatro nell’autunno 2023 (a volume già uscito) di una imponente manifestazione per arrivare, dopo il dialogo tra Giada Zandonà e Toni Mazzetti cui si è accennato in precedenza, ad un intervento sul tema, drammatico, dell’accoglienza nella bassa[15]. Da ultimo compaiono le riflessioni di carattere più generale di Gianni Sandon, Gianni Boetto, Lauso Zagato. Non approfondisco in questa sede il bel contributo di Sandon[16] perché si lega ad un problema dannatamente attuale, e che può essere letto (ed agito) in vari modi, quello cioè della candidatura UNESCO dei Colli[17]. L’intervento che conclude il complesso delle esperienze e riflessioni sviluppate nel volume, è opera di Gianni Boetto[18]. I passaggi sono condivisibili, opportuni, in particolare là dove richiama la non neutralità della scienza, la conseguente consapevolezza via via acquisita della non neutralità dell’organizzazione scientifica del lavoro. Di qua anche la centralità, a suo tempo, della non accettazione da parte operaia della monetarizzazione del rischio. Significativo è il richiamo alla critica, basagliana e non solo, “tra i modi di produzione del sapere sulla salute e la malattia ed il perpetuarsi di forme sociali di esclusione, oppressione, emarginazione e controllo” (pp. 380-381). Citando Maccaccaro, Boetto ci presenta la scienza medica e la conoscenza esperta come incarnazione di relazioni di potere[19]. Il contributo conclude nel senso della necessità/possibilità della costruzione di un un ambientalismo operaio.
Pongo a questo punto il problema che credo molti avvertono: questo gradualismo invitto che ha caratterizzato una esperienza ormai trentennale, riproducendosi nelle generazioni, come è stato possibile, visto la rarità con cui un tale fenomeno si verifica? E perché anzi sembra assumere maggiore importanza, significato? E soprattutto, potrà proseguire? E’ ovvio che siamo in presenza di una pluralità di cause, tra loro intrecciate, ma alla base ci deve sempre essere qualcosa di obiettivo. Al netto quindi di tutti i profili soggettivi, senza sottovalutazione alcuno (anzi con ammirazione) mi sento di porre al centro la questione dell’estrattivismo. Questa esperienza/cavalcata pluri-generazionale è nata in un ambiente caratterizzato da estrattivismo brutale (da giovanetto ero abituato al rumore delle esplosioni che si mangiavano quotidianamente parti del Monte Ricco e non solo, non le distinguevamo neppure più dai rumori del sottofondo ambientale)[20]. Lungo le varie stagioni di lotta le cose sono cambiate, fino a conoscere un salto di livello. Orbene, oggi, nell’appassire world-wide della retorica del neo-liberismo, e nel ri-mergere brutale di apparati di potere verticale, l’estrattivismo si rivela, dovunque, il cuore di questo nuovo/vecchio assetto della produzione capitalistica. Certo, non è il sasso l’oggetto materico privilegiato a livello globale, quanto l’estrazione a prezzi umani spaventosi di minerali preziosi, ma siamo ancora lì. Si ripresenta la faccia più brutale, in una con quella del traffico di esseri umani, del dominio. Mi sembra allora che l’essere sorta ed avere continuato a svilupparsi in siffatta condizione renda l’esperienza descritta nel volume più capace di adeguarsi al brusco salto di livello in atto rispetto agli equilibri politici ed all’economia/mondo di cui si discorreva (favoleggiava?) solo pochi anni fa. Vi è insomma, a mio avviso, un profilo di continuità con un risalente assetto dello sfruttamento capitalistico nella bassa, che in questo contesto da (apparentemente) residuale si è ri-fatto contemporaneo. Ciò contribuisce a collocare in una posizione di rilievo, ben oltre la dimensione locale, l’esperienza di chi quell’estrattivismo combatte e sempre ha combattuto. Si tratta, a ben vedere, di una considerazione benaugurante: starebbe infatti a garantire l’esistenza anche per l’avvenire di notevoli capacità di riproduzione dell’esperienza antagonista della Bassa.
Il mio intervento, in chiusura del volume, non è certo avulso da quanto fin qui discusso. Nel suo scritto Paolo De Marchi (p. 117) racconta come, nel corso delle iniziative di lotta contro la Fidia a ridosso degli anni ’90 i gruppi ambientalisti si trovarono di fronte alla vivisezione animale, sperimentata nell’ambito della ricerca farmaceutica della fabbrica (ad Abano Terme). Il tema era assai poco frequentato in quella fase dell’ambientalismo, ed anche nella Bassa emerse quasi a sorpresa, se ho capito bene, tra i giovani compagni che operavano ai cancelli della fabbrica; tuttavia emerse, e venne entro certi limiti compreso fin da allora, che quella questione “impattava con il nodo di diritti negati degli animali”. Mi sarebbe piaciuto saperne di più, anche se va in ogni caso preso atto di come, una volta di più, nella zona abbiano avuto luogo, magari senza immediata comprensione, iniziative molto anticipatorie. E’ legittimo allora sostenere che, nel mentre si evidenzia sempre di più la centralità degli allevamenti intensivi nell’universo inquinatorio in cui giacciamo immersi, insieme ad essa si venga ormai imponendo la (comprensione della) centralità dei problemi attinenti le relazioni tra specie. Del resto, è quanto in sostanza ritiene già Fulvio Ervas nella pagina conclusiva del suo intervento.
Proprio il chiaro, pregevole contributo dedicato al tema degli allevamenti intensivi del Comitato Lasciateci respirare di Lozzo Atestino[21], impone di fare qui un addendum al mio contributo[22]. Quando si era posta inizialmente la questione del mega-allevamento di Lozzo Atestino, che imponeva iniziative di sensibilizzazione nella bassa, mi era stato chiesto se intendevo partecipare, chiarendo che si trattava di una iniziativa unificante dei soggetti a vario titolo lesi dal progetto del mega-allevamento intensivo: in altre parole, una iniziativa che comprendeva anche produttori e consumatori di carne, oltre che vegetariani. Non mi parve il caso, anche se comprendevo come il problema delle alleanze, se così si può dire, fosse reale, in un simile frangente. Ecco perché ho richiamato nel mio contributo un passo di Donna Haraway, di suo una non-vegetariana, che per lungo tempo ha giudicato i modelli di allevamento a portata di vivente, anche ove poi si concludano con la “dolce morte” dell’animale allevato, come praticabili. Orbene, la stessa studiosa ha di recente preso atto che la situazione, con il trionfo a livello globale degli allevamenti intensivi, è mutata, e che a questo punto si impone il dovere etico di avvicinarsi alle posizioni dell’animalismo più rigoroso (e quindi del vegetarianismo). Lo scrivevo per sollecitare amiche ed amici (assai) riluttanti a prendere esempio dall’illustre precedente, facendo quantomeno un primo passo nella giusta direzione.
A tanta maggior ragione, e urgenza, una sollecitazione in tal senso urge anche al presente, poiché il comitato Lasciateci respirare di Lozzo ci informa, con estrema chiarezza, del proliferare nella zona, più che di allevamenti tradizionali che condurrebbero poi alla “dolce morte”, di svariati allevamenti intensivi minori “da carne”, messi ovviamente in crisi dall’impiantarsi di un mega-allevamento. Ribadisco la mia convinzione che l’allevamento intensivo sia uno dei profili portanti della nuova fase del vecchio capitalismo che avanza a grandi passi[23]: estrattivismo, campi[24], allevamento intensivo.
Senza andare oltre: con lo spunto di approfondimento qui offerto, esce confermato che il volume in esame, nello sviluppare il proposito di fondo, quello di ricostruire gli ultimi trent’anni di lotte prevalentemente (anche se non solo) ambientali sviluppatesi in un contesto che una volta si sarebbe definito periferico, ci conduce inesorabilmente ad affrontare nodi politici presenti di notevole portata, nodi la cui dimensione anche teorica risulta evidente. Non è certo, questo, un complimento minore.
[1] Miazzi F. (a cura di), Come le strope, Tracciati, Padova, 2023.
[2] Non è un segreto che la scelta del titolo, fortemente voluta dal curatore, aveva creato all’inizio diffuse perplessità. A posteriori peraltro la scelta funziona, le preoccupazioni si sono rivelate eccessive. Resta che la scelta aumenta, per così dire, la veneticità del volume e non agevola il lettore non veneto.
[3] Contributo tra i più gradevoli alla lettura, la … passeggiata in prosa di Giada Zandonà e Toni Mazzetti (C’erano i Colli euganei in un intimo rapporto naturale … e tutto era silenzio, pp. 349-365) avrebbe qualche accenno di nostalgia passatista, come traspare dallo stesso titolo. In ogni caso, la quantità di informazioni scientifiche e non solo (vi ho trovato anche finalmente un inizio di chiarezza sulla questione dei cinghiali, in relazione alla quale vi è stata troppa timidezza finora, credo) che i conversanti ci offrono rende più che accettabile anche questi richiami.
[4] Bio-bufala la chiama opportunamente il titolo. V. Montcchio F., La bio-bufala degli inceneritori a pollina e dei cogeneratori a biomasse vegetali, pp. 131-136.
[5] Personalmente resto del parere che in testa a questo poco raccomandabile concorso sia la genialità della proposta di rispondere allo spopolamento del centro di Monselice tramite l’apertura di un McDonald in piazza Mazzini. Non se ne parla nel volume: lo capisco, non c’è proprio nulla da dire. Però forse si poteva accennare, si tratta di un caso in cui l’idiozia sconfina nel sublime, rasenta una sorta di eleganza (a contrariis …)
[6] Jori F., Radice identitaria e degrado ambientale nel Veneto, pp. 25-34. A p. 25 è citato l’intervento di Luciani, in un documento della Fondazione Benetton:“le forme assunte dall’insediamento residenziale ed ancor più industriale e i modi assunti dalla mobilità nell’area veneto centro-orientale sono arrivati al limite oltre al quale sono a rischio quei caratteri originari, quelle stratificazioni storiche, quel patrimonio dell’identità (urbana, paesaggistica, antropologica).”.
[7] Bettin G., Veneto, il paesaggio tradito, pp. 35-42. Il richiamo è a p. 36, in relazione ad un “produttivismo diffuso, fondato sullo sfruttamento intensivo sia della forza-lavoro … sia del territorio e delle risorse naturali”.
[8] V. Mazzaro R., Mose e dintorni, pp. 43-53, in part. P. 51 SS.
[9] E v. anche Tasinato A, L’acqua che non c’è più: dall’avvelenamento alla siccità, pp. 55-64.
[10] Sul secondo punto tonerò in conclusione, sul dibattito interno alla correttezza e ai limiti della nozione di antropocene non c’è purtroppo modo di tornare in questa sede.
[11] De Marchi P., Anni Ottanta: da Schiavonia a Comiso, passando per Caorrso e Montalto di Castro, pp. 101-120.
[12] Mi riferisco a Andreose B. (a cura di), Radici connettive. Il ’68 a Este e nella bassa padovana, Roma, DeriveApprodi, 2021.
[13] Miazzi F., Le radici e lo spirito dell’Associazione Difesa Lavoratori, pp. 305-313.
[14] Bosarolo D., Il Moraro a Bagnoli, pp. 295-300.
[15] Ramazzina L.P., La bassa padovana che accoglie, pp. 321-324.
[16] Sandon G., Parco, quante occasioni perdute, pp. 365.372.
[17] Come giurista che si occupa professionalmente della protezione del patrimonio e delle identità/differenze culturali, mi occuperò probabilmente della questione in termini tecnici (giuridico/politici intendo), e non voglio mischiare le cose. L’intervento di Sandon offre, al riguardo, elementi di riflessione assai solidi.
[18] Boetto G., Ambiente e lavoro, un conflitto storico, pp. 373-386.
[19] Ovviamente concordo al 100%, e se qualcuno avesse dei dubbi ritengo che la gestione da parte del potere della crisi sindemica recente abbia fugato ogni incertezza. Ma so che la questione è ancora scottante, e non insisto.
[20] L’estrattivismo aveva anche un profilo culturale marcato, un volto ideologico se così si può dire: mi riferisco all’ammirazione diffusa nei confronti di chi quella rovina aveva iniziato e stava portando avanti: “El sasso ghe iera par tuti!”, e quindi lode a coloro che per primi si erano fatti avanti a cavarlo: la frase, indelebile nella mia mente, venne pronunciata da un avventore del mitico bar Duomo di Monselice già oltre la metà degli anni ’60, nell’assenso entusiasta degli altri avventori. Come dimenticare?
[21] Sossella S., Zoia R. e Zoia S., Stop allevamenti intensivi: il Comitato Lasciateci Respirare di Lozzo Atestino, pp. 329-332.
[22] Zagato L., Gli (altri) animali, noi, Treblinka, pp. 387-395.
[23] A suo tempo Mario Tronti aveva notato (non ricordo dove e cito a grandi linee, mi scuso ma è il prezzo da pagare alla vecchiaia) che il capitalismo è sempre oppressione, distruzione di ricchezza, guerra, e che “tutto ciò che è ragionevole gli è estraneo”. In uno scritto più recente, ritornato in auge dopo la morte (La verità è rivoluzionaria, comparso su Pandorarivista il 14 agosto 2014, www.pandorarivista.it/articoli/mario-tronti-verità-rvioluzionaria), egli ci spiega la vacuità del mantra “tutto è cambiato, tutto sta cambiando”. Al contrario tutto è “disperatamente fermo”, tutto è sostanzialmente come prima. Se le forme di esistenza della società capitalistica si sono radicalmente trasformate (pensiamo all’informatica), “il capitalismo come sostanza di vita, cioè come rapporto sociale e come rapporto di potere, è ancora quello”. Ancora all’inizio dell’ultimo decennio dello scorso secolo del resto il maestro di tutti noi, osservando con occhio fermo la deriva del neo-liberismo in atto, vi aveva saputo scorgere, veleggiante via satellite e/o via cavo telefonico, l’antica nave pirata di Drake, intenta nello sforzo di accumulazione originaria (riversando questa volta i “suoi tesori nelle Tortughe degli ordinateurs con trasbordi negentropici”). V. Bianchini G., E’ ancora l’economia una scienza?, in Giovannelli G. e Sbrogiò G. (a cura di), Guido Bianchini maestro dell’operaismo, Deriveapprodi, Roma, 2021, pp. 45-52.
[24] Uso il termine campi in senso generale, riferito al trattamento di tutti i paria e dei discriminati della Terra, nel senso cioè che usava Hannah Arendt alla fin del ’42 quando scriveva Noi rifugiati, finalmente ripubblicato lo scorso anno da Einaudi con una bella postfazione di Donatella Di Cesare, che è anche la curatrice (Arendt H., Noi rifugiati, Einaudi, Torino, 2022). Arendt ci mette in guardia, già allora, che in questa materia la differenza tra Stato totalitario e Stato democratico è minima, e comunque solo di gradazione. “Produzione e rifiuto degli indesiderabili – chiosa la Di Cesare – non sono caratteristiche del totalitarismo, bensì dello Stato nazionale che … consegna i paria dell’umanità alle zone di transito e ai campi di internamento” E ancora Di Cesare, parlando dell’oggi (p. 34). “Dalle periferie planetarie della desolazione e delle guerre, dallo sterminato hinterland delle persecuzioni e della miseria, il popolo dei rifugiati si muove mettendo …in questione le frontiere dell’ordine mondiale, Contro questo popolo si erge lo Stato, l’ultimo baluardo del vecchio assetto politico, dell’obsoleto nomos della terra. Scaturisce da qui il conflitto tra sovranità statuale e diritto di migrare, tra una cittadinanza ristretta ai confini e una cittadinanza in cui sia inserita l’ospitatlità”.
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https://cesp-cobas-veneto.eu/…/morire-per-il-lavoro…/
di Beppi Zambon



















Nella sua video-rubrica, Renzo Mazzaro si occupa del consumo di suolo e della resistenza che ci dovrebbe vedere in prima linea per amore dei nostri nipoti: “Di capannone in capannone, in Veneto abbiamo lastricato tutto”. Il ragionamento prende avvio dalla presentazione in consiglio regionale di un libro sulle battaglie ambientaliste dal titolo “Come le strope“: “Sembra un coro di voci miste, 40 autori diversi che condividono un’idea: basta al consumo di suolo. La vera resistenza non si fa cantando “Bella Ciao”, ma resistendo all’idea di massacrare nuovamente il territorio. Dobbiamo difendere la terra che lasceremo ai nostri nipoti”.

Il servizio andato in onda al #tg3 veneto 8 gennaio 2024 https://www.facebook.com/comitatolasciatecirespirare.monselice/videos/1773035316511295