Donne, vita, libertà

Lo slogan “Donna, vita, libertà”, in origine lanciato dal movimento di liberazione curdo, sancisce un rapporto diretto tra la donna e la libertà. Esso si basa sulla convinzione che la liberazione della donna sia la pietra miliare per la liberazione di tutta la società. Articolo a cura del “Gruppo InOut” sulle proteste in Iran per la morte di Mahsa (Zhina) Amini.

Mahsa Amini, il simbolo delle attuali rivolte in Iran, era curda e quindi l’adozione di questo slogan è denso di significato. La scintilla che ha portato le iraniane e gli iraniani alla protesta, diffusasi brevemente in tutta la nazione e in molte città del mondo, è stata la morte di questa ragazza.

Mahsa Amini, una ventiduenne curdo – iraniana in vacanza a Teheran, viene arrestata, il 16 settembre, dalla polizia morale religiosa perché non indossa correttamente il velo. Muore in carcere in circostanze che lasciano sospettare che non sia morta per un malore improvviso, come sostiene la polizia, ma per violente percosse.

L’Iran, in queste settimane, è teatro di forti proteste che coinvolgono tutti i ceti sociali, scesi nelle piazze per rivendicare diritti e libertà.

Le notizie che ci arrivano sottolineano l’importanza di quanto sta accadendo: da un lato un intero popolo si sta rivoltando (si parla addirittura di una nuova rivoluzione), dall’altro un governo che ha scelto una dura repressione e ha già provocato centinaia di morti e migliaia di arresti.

Giuliana Sgrena, in un articolo del 6 ottobre, scrive:

“Si parla di rivoluzione perché la rivolta è interclassista, non sono solo gli studenti, non solo le donne, come in passato, ma tutti gli iraniani sono in piazza a rischiare la propria vita.

L’uso del velo prevede anche un comportamento adeguato ai canoni di un islam integralista che nega i diritti delle donne. Lo sanno bene le afghane – ormai dimenticate dai media, un anno dopo il ritorno al potere dei talebani – che, in questi giorni, sono scese anche loro in piazza in solidarietà con le sorelle iraniane sfidando le pallottole dei guardiani della prevenzione del vizio e promozione della virtù.”

Alle proteste di queste settimane partecipano generazioni diverse.

Ognuno ha qualcosa da rivendicare.

I più giovani un futuro che non sia fatto di limitazioni delle libertà e disoccupazione.

Gli adulti, la possibilità di invecchiare senza dover fare la fame dopo anni di lavoro.

La capacità di resistenza delle donne è emersa in più occasioni nella storia del paese e la tenacia dimostrata ora testimonia una consapevolezza e una strenua volontà di cambiamento che oggi bisogna sostenere a livello internazionale, seguendo le indicazioni che arrivano dalle piazze iraniane e da quelle che si stanno costruendo in tutto il mondo sotto la guida delle comunità in diaspora.

La ricercatrice Minoo Mirshahvalad, della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, si occupa di diritto sciita, immigrazione e rapporti di genere in Italia e in Iran, intervistata da Paola Cavallari, dichiara:

La rivolta iraniana è un evento che per la sua violenza e l’audacia delle protagoniste evoca la rivoluzione francese, lanciato però dalle donne con il sostegno degli uomini.”

“Malgrado il blocco plurisettimanale di internet in Iran, sulla rete si trovano i video delle studenti iraniane delle scuole medie che, sventolando il velo, corrono contro le forze dell’ordine senza armi, mentre insultano uomini armati che le picchiano e sparano contro di loro.

Sono sbalordita di tali coraggio e rabbia senza precedenti nella storia del paese.”

Riguardo l’imposizione del velo aggiunge “Il Corano non ha mai parlato della copertura della testa della donna. Tuttavia, il velo, per una serie di motivi socio politici ampiamente discussi nella letteratura esistente, è diventato un elemento fortemente identitario con connotazioni politiche.”

“Non solo in Iran, ma in altre realtà le religioni sono ridiventate platealmente strumento politico, incardinato su un fondamento patriarcale. Molti/e giornalisti e politici denunciano la teocrazia iraniana ma non ne traggono le conseguenze di un dominio patriarcale.”

Da qui il titolo dell’articolo della Cavallari “Teocrazia e patriarcato si alimentano a vicenda”.

“[…] è chiaro che il patriarcato e la teocrazia vanno a braccetto. Di questa collaborazione la memoria italiana ha una lunga traccia, tuttavia, il ceto dirigente assieme agli organi di propaganda continuano ad essere prevalentemente diretti dagli uomini. Non è difficile vedere le conseguenze.”

“Le conseguenze del ritorno trionfale del conservatorismo in Europa, che con la crisi della spiritualità fa pure un numero considerevole di proseliti, ahimè, affligge sia il Medio Oriente che l’Europa stessa.”

Si continua a nutrire una particolare nostalgia per un passato presunto ordinato e sensato che con ‘l’invasione’ della modernità è stato compromesso. Un passato in cui il rapporto di genere, la famiglia e l’autorità avevano definizioni plurisecolari e quindi ben stabilite.”

Ad oggi ormai, dopo quaranta giorni e 198 città coinvolte, la rivolta iraniana ha assunto i chiari tratti di una mobilitazione femminista, intesa non solo come rivendicazione di giustizia di genere ma come spinta verso una reale giustizia sociale che investa l’intero paese.

Sostenere le lotte delle donne in Iran o in Afghanistan significa impegnarsi anche qui e ora per rimuovere la struttura patriarcale che, nelle sue diverse forme e funzioni, domina anche la società occidentale.

E in Italia l’impegno e la lotta delle donne sono quanto mai necessari, in particolare oggi che alla presidenza del Senato siede Fontana, organizzatore nel 2019 a Verona del XIII Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families, WCF) che riunisce «il movimento globale» antiabortista, antifemminista e anti-LGBTQ+ , classificato come “gruppo d’odio” dal Southem Poverty Law Center, organizzazione americana senza fini di lucro impegnata nella tutela dei diritti delle persone.

Oggi che una donna alla Presidenza del Consiglio si fa chiamare IL presidente, dopo aver orgogliosamente dichiarato “Sono una donna, sono una madre, sono una cristiana”.

Come se Elisabetta I e II o Vittoria avessero rifiutato il titolo di regina e Caterina o Maria Teresa quello di imperatrice.

Come se la lingua italiana non prevedesse l’uso di articolo maschile o femminile davanti al participio presente.

Come se il nome del ruolo dovesse continuare a essere declinato solo al maschile perché al femminile indica qualcosa di meno importante o riduttivo.

Allora che fare?

Continuare a impegnarsi per una cultura diffusa che metta al centro il corpo, le emozioni, i desideri, che si fondi su una riflessione senza pregiudizi per ridisegnare la vita quotidiana, che dia valore alle relazioni e ci porti a costruire legami, che ci insegni a gestire il conflitto e a lottare per i nostri diritti.

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