Malala Yousafzai, una sedicenne pakistana della tribù pasthun, racconta in un libro, pubblicato nel 2013 le vicende che, fin da bambina, l’hanno portata a battersi per i diritti delle donne e, conseguentemente, a fondare il Malala Fund (organizzazione no profit, dedicata al diritto universale all’istruzione, https://malala.org/ ) diventando, nel 2014, la più giovane Premio Nobel per la pace al mondo. Recensione a cura di Martina Magon.

Un’adolescente che viveva con la sua famiglia nella bella Valle dello Swat, in Pakistan, ha deciso di esporsi pubblicamente a favore dei diritti delle donne dapprima nella sua provincia e, in seguito, ovunque questi vengano calpestati, arrivando ad essere conosciuta in tutto il mondo, a tenere un discorso appassionato all’ONU (ecco il link per ascoltarlo https://youtu.be/EpUNMaT31FI ) e ad incontrare i leader mondiali.
Una storia simbolo che tenta di rendere giustizia alle donne che non hanno voce.
La giovane autrice, nel 2013, pubblica un libro autobiografico dal titolo “Io sono Malala” dedicandolo “A tutte le ragazze che hanno affrontato l’ingiustizia e sono state zittite” e va dritta al punto iniziando così il primo capitolo:
“Quando nacqui” nel 1997 “la gente del mio villaggio commiserò mia madre e nessuno si congratulò con mio padre. […] Per molti pasthun, quello in cui nasce una femmina è un giorno triste”.
Una bambina, spiega Malala, venuta alla luce in un Paese in cui quando nasce una femmina non si esulta e la si nasconde dietro una tenda poiché nella maggior parte dei casi il suo ruolo principale sarà quello di cucinare e mettere al mondo figli.
Malala, però, sottolinea che la sua situazione è particolare e lo è in virtù del fatto che suo padre “è diverso dalla maggioranza degli uomini pasthun” e che entrambi i genitori l’hanno sempre incoraggiata ad andare a scuola.
“Mia madre è molto bella, mio padre l’adora e la tratta come un fragile vaso cinese. Non ha mai alzato un dito su di lei, come invece fanno tanti dei nostri uomini.”
La loro fu un’unione d’amore ma “Di norma nella nostra società i matrimoni sono combinati dalle famiglie”. Durante la cerimonia viene loro posto in grembo un bambino come gesto augurale per la nascita di un figlio maschio.
“Papà condivide con lei ogni cosa, le racconta della sua giornata.
Di solito gli uomini pasthun non fanno così perché condividere i propri problemi con la moglie è ritenuto un segno di debolezza.”
Suo padre era solito dire: “Malala sarà libera come un uccello”. Ma fin da bambina “mentre guardavo i miei fratelli correre sulla terrazza del tetto per far volare gli aquiloni […] mi chiedevo fino a che punto una femmina avrebbe potuto essere libera”.
La tradizione impone che le donne non possano uscire di casa senza un parente maschio “anche solo un bambino di cinque anni!” e dalle bambine ci si aspetta che aiutino le madri in casa e che servano padri e fratelli.
Il padre di Malala è insegnante, a sua volta figlio di insegnante, mentre la madre è casalinga e analfabeta, nonostante la sua famiglia di origine non sia povera, poiché quando era giovane, in quasi tutte le famiglie, le femmine restavano a casa mentre i maschi andavano a scuola.
Nonostante ciò, a sei anni la madre prova a frequentare le lezioni perché, a differenza delle altre bambine, viene incoraggiata dal padre e dai fratelli.
L’unica bambina in una classe di maschi. Dopo pochi mesi abbandona perché “le sembrava che non avesse molto senso andare a scuola per poi finire a cucinare, pulire la casa e badare ai figli.” Quando, da bambina, parlava con le amiche dei sogni per il futuro, la maggior parte di loro si limitava a dire che voleva sposarsi, avere dei figli e cucinare per il marito.
“Ma le ragazze non si perdevano solo la scuola”
Nella famiglia d’origine del padre, ad esempio, solo i maschi potevano bere latte, mangiare la panna, le uova e il petto di pollo mentre le femmine bevevano il tè e del pollo potevano mangiare solo ali e collo.
Fin da piccoli veniva e viene rimarcata la diversa importanza nell’appartenere a un genere o ad un altro e ciò che questo comporta.
Nel 1977, il regime del generale Zia emana norme sempre più limitanti per le donne come, ad esempio: in tribunale il valore della testimonianza di una donna diventa inferiore a quello di un uomo, aprire un conto in banca viene permesso solo col consenso di un uomo e gli sport femminili vengono aboliti, tranne l’hockey.
Il codice di condotta della tribù pasthun (pashtunwali) prevede che le donne frequentino le stanze dell’isolamento (purdah) e ne escano coprendosi il viso, che incontrino o parlino solo con uomini della famiglia, che si possano sposare ancora bambine, che non flirtino con un uomo né possano ritornare a casa se lasciano un marito violento poiché ciò getterebbe disonore su tutta la famiglia, che una ragazza possa essere ceduta ad un’altra famiglia per sedare una faida, che una donna possa risposarsi o avere aiuti dal governo solo se il marito viene dichiarato morto e non se è disperso.
“Quando protestai con mio padre per questo genere di cose, lui mi disse che per le donne afghane la situazione era ancora più grave”.
Infatti, nel 1996 i talebani prendono il potere in Afghanistan e, tra le varie imposizioni, oltre a obbligare gli uomini a farsi crescere una lunga barba, costringono le donne ad indossare il burqua e chiudono le scuole femminili.
In Pakistan, la condizione delle donne peggiora sensibilmente dopo l’11 settembre 2001, fino a raggiungere il culmine dal 2007, con l’arrivo dei talebani.
Gli estremisti islamici pattugliano le strade a caccia di trasgressori.
Vietano la televisione, la danza, la musica, il cinema, le scuole femminili, i saloni di bellezza e impongono il velo alle donne, la barba agli uomini e lo shalwar kamiz, l’abito tradizionale composto di tunica e pantaloni, ad entrambi i sessi.
“Io ero confusa dalle parole di Fazlullah” capo talebano nella provincia pakistana dello Swat. “Nel Santo Corano non c’è scritto da nessuna parte che solo gli uomini possono andare fuori mentre le donne dovrebbero lavorare tutto il santo giorno in casa.”
I talebani cominciano con i consigli per poi arrivare alle imposizioni e alla violenza.
Molta gente all’inizio è stata sedotta dalle loro parole anche perché molti di loro sono stati tra i primi a prestare aiuto alla popolazione in seguito al terremoto del 2005 (grado 7.6 della scala Richter, 73.000 morti, 128.000 feriti, 3,5 milioni di sfollati, 11.000 orfani. Orfani e figli di lavoratori emigrati divengono prede facili dei reclutatori di milizie per i gruppi estremisti).
“Quando ero per strada avevo la sensazione che tutti gli uomini che mi passavano accanto potessero essere talebani.
Papà diceva che la cosa più bella che si può vedere in un villaggio la mattina è un bambino con l’uniforme scolastica, ma ormai avevamo paura di indossarla”.
In quel periodo, molte scuole femminili vengono fatte esplodere di notte al ritmo di quasi una al giorno.
In questo clima di terrore seminato dai talebani, il padre di Malala e altri attivisti non rimangono immobili, come la maggior parte della popolazione, ma si adoperano attraverso le reti di conoscenze create in anni di associazionismo a favore della democrazia, della pace e dell’istruzione, per far sì che il mondo sappia.
Concedono interviste alla BBC e a Voice of America spiegando che ciò che stava succedendo nello Swat non aveva nulla a che fare con l’Islam.
“Io sapevo che aveva ragione. Se la gente continuava a stare zitta non sarebbe mai cambiato niente.”
L’attivismo di Malala, coltivato seguendo il padre nelle riunioni, si fa più concreto quando, dagli undici anni in poi, rilascia interviste contro il divieto di istruzione scolastica per le bambine e ragazze nello Swat.
Malala sottolinea come a undici anni denuncia in tv, assieme a molte altre bambine, ciò che stava accadendo ma al raggiungimento della pubertà i loro genitori, tranne suo padre, non lo hanno più permesso dato il rischio di essere prese di mira dai talebani.
Nel 2009 Malala, con lo pseudonimo di Gul Makai, inizia a scrivere un diario nel blog della BBC e, assieme al padre, è la protagonista di un documentario del sito web del New York Times dal titolo “Fine delle lezioni nella valle dello Swat”.
“Le ragazze dovevano smettere di andare a scuola. Com’ era possibile che quella gente, nel ventunesimo secolo, impedisse a più di cinquantamila ragazze di studiare? […] Il nostro popolo è stato mal guidato. Affermiamo che il nostro primo pensiero sia difendere il Corano ma poi ci lasciamo fuorviare da coloro che lo interpretano in modo scorretto. Faremmo meglio a concentrarci sulle questioni pratiche.” e tra queste l’autrice propone il miglioramento del governo, delle infrastrutture e dell’istruzione, con particolare attenzione alle donne.
Esponendosi così tanto, sia il padre sia Malala stessa cominciano a ricevere minacce da parte degli estremisti. Il padre è convinto di essere il bersaglio prescelto dato che gli estremisti islamici non avevano mai deliberatamente colpito dei ragazzini.
Il 9 ottobre 2012 un talebano entra nel pullman della scuola che stava riaccompagnando a casa Malala e le sue compagne e le spara, colpendola alla testa.
Ne seguono varie operazioni chirurgiche, un trasferimento d’urgenza in un ospedale inglese ed infine la riabilitazione. Nel frattempo la sua fama accresce talmente tanto da farla conoscere in tutto il mondo come attivista per il diritto all’istruzione delle bambine.
Quando, una volta risvegliatasi dal coma, le viene spiegato cosa le è accaduto, commenta: “Compresi così che i talebani avevano realizzato il mio obiettivo di rendere globale la mia campagna.”
Per capire meglio la situazione delle donne in questi Paesi, puoi partecipare all’incontro del 28 agosto organizzato dal gruppo Donne in ekopark in occasione del festival Ekopark 2023 presso il parco Buzzaccarini di Monselice.

Grazie per questa chiara e limpida recensione che ci fa capire che senza la conoscenza, l’istruzione e la scuola la nostra vita sarebbe come una stanza chiusa senza aria né luce.