Il carattere interclassista delle proteste mette insieme ingredienti non tutti compatibili tra loro. Le rivendicazioni nei confronti dei singoli governi e, soprattutto, dell’Unione Europea, sono un coacervo di istanze fra loro differenti e anche divergenti perchè molto diversi sono gli interessi, i bisogni e gli obiettivi che alimentano la rabbia dei contadini. Riportiamo il contributo di Paolo De Marchi.
1. La prima cosa che colpisce nell’osservare i blocchi stradali con trattori e mezzi agricoli in buona parte dell’Unione Europea, dal Belgio alla Germania, dalla Francia all’Italia, dalla Grecia alla Romania e alla Lituania, è il diverso atteggiamento tenuto dalla polizia dei singoli Stati nei confronti dei protagonisti delle proteste rispetto a quello tenuto nei confronti di altre mobilitazioni (gilet jaunes, manifestazioni contro la riforma pensionistica del governo Macron, cortei pro Palestina, iniziative di Ultima Generazione, blocchi no TAV) caratterizzato da repressione, cariche violente, fermi e arresti. Colpisce anche l’unanimità di consensi nei confronti delle protesta degli agricoltori da parte dei capi di governo e dei vertici della Commissione Europea, i veri responsabili della condizione in cui versano questi, ora tutti solleciti a proporre decreti, modifiche legislative e normative, nuovi stanziamenti a favore di sussidi e sostegni a questo o quel settore del mondo agricolo, come non avviene viceversa per altre realtà. D’altra parte queste proteste arrivano in un momento delicato, in prossimità delle elezioni europee, con popolari e conservatori che sentono il vento cambiare a loro favore e quindi, tutti, compresi i socialdemocratici, si sono attivati per guadagnare consensi o mantenerli inalterati o, quanto meno, limitare le perdite.
La rabbia ‘corporativa’ esplosa in questi giorni covava da tempo, coccolata e sostenuta dalle destre euroscettiche e sovraniste, ben ricambiata da una larga parte di questo mondo agricolo fornendo un forte sostegno elettorale alle destre xenofobe, razziste, nazionaliste, sovraniste in Belgio e Olanda come in Ungheria e Slovacchia, in Germania come in Francia… Un settore complessivamente impoverito dal combinato di crisi economica e climatica, con una struttura sociale dal carattere interclassista, non poteva che cadere in larga parte nella vulgata mistificatoria che questo impoverimento complessivo dell’agricoltura europea sia imputabile soprattutto a una PAC e a una legislazione comunitaria troppo spinta a imporre sacrifici per la transizione ecologica. Se inquadriamo le mobilitazioni in questo contesto, meglio si comprende dove stanno andando a parare le mielose dichiarazioni di tolleranza e vicinanza con la protesta della Von der Leyner, di Macron, Scholtz, Meloni e dell’allegra compagnia dei diversi capi di Stato dell’Unione. Allo stesso modo si capisce perchè le grandi organizzazioni sindacali degli agricoltori si siano precipitate a fornire un cappello di legittimazione alle proteste, anche a quelle spontanee e autorganizzate e dove la loro azione è risultata in ritardo, sorpresa dall’indizione spontanea di blocchi stradali e mobilitazioni. Si comprende anche il ritardo della Coldiretti in Italia a sostenere la protesta, lasciata in buona parte alla spontaneità di settori particolarmente colpiti dalla crisi agricola e la sua frettolosa rincorsa a recuperare il terreno per guadagnarsi il posto al tavolo della trattativa con la Commissione Europea
Il tutto con il ringraziamento implicito delle lobbies dell’agroindustria vero e incontrastato magister della strutturazione del settore e dei suoi andamenti economici.
2. Proprio per il carattere interclassista delle proteste, queste sembrano un minestrone stracolmo di ingredienti non tutti compatibili tra loro. Le rivendicazioni, infatti, nei confronti dei singoli governi e, soprattutto, dell’Unione Europea, sono un coacervo di istanze fra loro differenti e anche divergenti perchè molto diversi sono gli interessi, i bisogni e gli obiettivi che alimentano la rabbia dei contadini. Ci sono differenze di accesso ai fondi PAC rilevantissime tra chi di fatto non vi accede o riceve meno di 3000 euro e chi, invece, usufruisce di 500 mila euro. Ci sono settori che non vengono quasi per niente considerati dai programmi di finanziamento della PAC e dei singoli governi e altri che, invece, sono costantemente privilegiati e favoriti. Esiste una profonda diversità nel modo di concepire la produzione agricola e la commercializzazione dei prodotti tra coloro che hanno scelto di coltivare biologico o naturale e si impegnano nella transizione agro ecologica della propria azienda, spesso di piccola e media struttura. Chi preferisce monocolture redditizie e sovvenzionate; chi alleva migliaia di animali in stalle e capannoni e intende continuare ad usare pesticidi senza subire divieti, limitazioni e prescrizioni.[1] Le ragioni di questi ultimi sono decisamente sostenute dalle potenti organizzazioni sindacali del settore che godono di accessi privilegiati ai fondi PEC, sono favorite dall’agroindustria che è il vero deus ex machina dell’andamento del mondo agricolo, condizionandone e strozzandone economicamente la condizione. In questo guazzabuglio di rabbia e rivendicazioni corporative il grande capro espiatorio sembra essere l’agenda verde dell’Unione – quel green deal, insieme di norme contraddittorie, frutto di un compromesso al ribasso proprio con le lobbies dell’agroindustria che ha ben poco di green – e, quindi, i supposti costi delle norme europee con finalità ambientali che graverebbero su questo mondo.
3. All’interno di questo calderone esistono in Italia e in altre parti dell’Unione, soprattutto in Francia, posizioni condivisibili come quella espressa in questi giorni dall’Associazione Rurale Italiana, componente del Coordinamento europeo Via Campesina. Il suo comunicato stampa che chiarisce il senso della partecipazione dei suoi associati alle mobilitazioni si sofferma sulla presenza e i bisogni delle nuove figure del settore come lo sono i contoterzisti, sempre più presenti nel mondo agricolo, in posizione precaria di redditività e individua nel modello neoliberista (i Grandi Marchi e la Grande Distribuzione Alimentare), che innerva il mercato e l’organizzazione della produzione, distribuzione e circolazione dei prodotti agricoli, il protagonista delle pratiche predatorie di risorse naturali, dello sfruttamento e dell’autosfruttamento del lavoro nei campi di braccianti, affittuari, piccoli proprietari. Di contro, si sottolinea l’urgenza di una affermazione di un modello agro-ecologico solidale per fornire redditi dignitosi e adeguati, coltivare e distribuire cibo di qualità; dare una risposta ambientale adeguata a contrastare anche i cambiamenti climatici in corso.
In fondo è quello che solo qualche anno fà un grosso movimento di protesta rivendicava invadendo le piazze di Berlino al grido Wir haben es Satt! “Ne abbiamo abbastanza”. Erano anche in quel caso migliaia di agricoltori, allevatori, apicoltori, panettieri, cuochi, giovani e meno giovani con cui solidarizzarono molti cittadini berlinesi. Chiedevano una PAC più equa, rivolta ad un’agricoltura sostenibile e di piccola scala per rispondere adeguatamente sia a un mercato governato dagli interessi dell’agroindustria e della produzione di larga scala, energivora, predatoria e di bassa qualità, sia all’impatto sempre più determinante dei cambiamenti climatici sull’ambiente agricolo e sulle produzioni. Echeggiava negli interventi la difesa dei suoli, della biodiversità, la promozione di consumi consapevoli. Quel movimento esprimeva una piattaforma rivendicativa che metteva al centro produzioni di qualità, filiere corte e sostenibili, produzioni biologiche e naturali, sostegno ai progetti di rigenerazione e difesa della biodiversità, difesa delle risorse nel rapporto con le tipologie di produzione (si pensi all’acqua) e affrontava anche la questione dello sfruttamento nei campi dei braccianti, soprattutto di lavoratori stranieri, migranti comunitari e extracomunitari. Guidava la protesta un’ampia coalizione di organizzazioni della società civile, tra cui Slow Food Germania. Insomma prefigurava, come emerso dalle lotte anti globalizzazione di Seattle e Genova, un diverso modello di sviluppo, antagonista a quello neoliberista dominante.
Nello stesso inverno, mentre scoppiava in Italia la rivolta dei pastori sardi produttori di latte[2], si intrecciavano opinioni e riflessioni in merito alle mobilitazioni del mondo agricolo. Particolarmente lucida e ancora attuale – per questo meritevole di essere riportata anche oggi – era la riflessione formulata da Van Der Ploeg, docente di sociologia rurale all’Università di Wegeningen (Olanda) e Pechino (Cina), in una intervista pubblicata da Il Manifesto nel supplemento settimanale “l’Extraterrestre” del 21 febbraio 2019.
“Gli imperi alimentari hanno interesse a procurarsi le materie prime ovunque nel mondo trovino i prezzi più bassi e ad utilizzarle con ingredienti per varie tipologie di alimenti”; essendo le materie prime spesso deperibili, sosteneva, la ricerca scientifica e in particolare quella universitaria, in larga parte al servizio di questi “imperi” si impegnava “ a trovare i metodi più efficaci per far viaggiare il cibo nello spazio e nel tempo con diverse conseguenze negative: deprimere i prezzi delle materie prime pagate agli agricoltori, produrre cibo [di bassa qualità e nocivo], aumentare i rischi di contaminazione del cibo, introdurre nell’alimentazione additivi di cui non conosciamo le interazioni e gli effetti sulla salute a lungo termine.” Denunciava un mercato, quello europeo in particolare, “liberalizzato e deregolamentato” a favore delle produzioni intensive e dei grandi gruppi produttivi-industriali e della distribuzione. Ogni “piccola eccedenza può causare un effetto negativo sui prezzi” che è uno degli obiettivi di questi “imperi alimentari” che possono così speculare sulla volatilità dei prezzi per incrementare l’accumulazione del capitale.[3]
4. Posizioni come queste sono rimaste minoritarie e marginalizzate nel mondo agricolo, spesso contrastate dalle organizzazioni sindacali del settore; nessuna risposta in questo senso è stata messa in campo nè dai Governi nazionali, nè dall’Unione Europea. Si è favorito gli interessi dell’agroindustria e la dipendenza a questi interessi di gran parte del settore, incentivando le monocolture energivore, i grandi allevamenti dell’industria della carne, lo sviluppo tecnologico a favore di produzioni intensive e basate su fertilizzanti e pesticidi chimici, la meccanizzazione sempre più costosa e complessa, la ricerca biotecnologica per rese sempre maggiori come quella sugli Ogm.
Avanti quindi con la produzione di cibo sempre meno salutare, molto spesso scadente, sostenuta da un lavoro sottopagato o mal pagato; avanti con il mito benefico del libero mercato attraverso accordi commerciali globali – per l’UE quello contestato in questi giorni con il Mercosur – e con la finanziarizzazione del settore grazie al ruolo centrale giocato dalle Borse nella determinazione dei prezzi, sempre più spesso legata all’andamento della speculazione sui beni derivati (futures); avanti infine con la mercantilizzazione del settore che favorisce le grandi aziende e le concentrazioni di capitale e proprietà a discapito dell’imprenditoria agricola media, piccola e ancor più di quella volta a coltivazioni biologiche e naturali.
Questi processi sono visibili per tutto il comparto agricolo nell’intera Unione Europea. Ne da una plastica testimonianza il processo di concentrazione delle proprietà nel settore vitivinicolo, soprattutto in Francia e in Italia. Oltralpe Le Monde diplomatique, in un ben servizio sulla corsa ad accapararsi i vigneti di rosè della Provenza, descrive chiaramente l’interesse per i vigneti della valle di Esclans – 40 km da Saint-Tropez – da parte di una serie di multinazionali e conglomerati francesi come Moet, Hennessy, Louis Vuitton. Nel giro di 5 anni il colosso mondiale dello champagne e del cognac si è comperato la quasi totalità dei produttori locali di rosè della Provenza. Se il 7,1% delle terre agricole francesi appartiene a Gruppi Finanziari, nel settore vitivinicolo è il 40% delle superfici a vigna ad essere appannaggio di questo tipo di imprenditoria. In Francia l’agricoltura e in particolare la viticultura, denuncia Julie Reux, giornalista che ha firmato l’inchiesta pubblicata, sono il paradiso del subappalto e cita i dati di Agreste 2020 che stima la presenza dell’80% di lavoratori agricoli in posizione precaria con contratti a tempo determinato, stagionali e da apprendisti. La quota di lavoratori distaccati, inviati in Francia per svolgere compiti specifici come la potatura delle vigne è maggiore di quella del settore edile.[4]
A questa profonda trasformazione della composizione sociale, economica e strutturale dell’agricoltura si sono sommati nuovi fattori di rischio per chi vi opera e lavora: bolle speculative, rialzo improvviso dei prezzi (si pensi ai fertilizzanti chimici e ai pesticidi il cui costo con la guerra ucraina è salito vertiginosamente, così come i costi energetici) e l’aumento esponenziale dei disastri climatici – alluvioni, temperature anomale, siccità. I costi di produzione sono lievitati, i margini di profitto diminuiti drasticamente mentre l’emergenza climatica ha imposto anche ai reticenti governi nazionali e comunitari di adottare misure, seppure blande, di contenimento dei rischi come, appunto, le norme a finalità ambientale oggi contestate. In una situazione così compromessa e precarizzata ecco che l’eliminazione da parte del Governo tedesco dei sussidi per il gasolio e la fine delle agevolazioni fiscali per l’acquisto di macchine agricole e forestali ha scatenato la rabbia dell’intero comparto agricolo. A cui è seguita la protesta agli agricoltori francesi, belgi e olandesi.
Ecco che le agevolazioni alla libera commercializzazione del grano ucraino nei mercati dell’Unione (sulla cui salubrità ci sarebbe molto da discutere) hanno scatenato la protesta furente degli agricoltori polacchi, lituani, slovacchi, rumeni e ungheresi.
Ecco che l’abolizione dell’esenzione Irpef per il settore agricolo disposta dal Governo Meloni nella Finanziaria di dicembre e la cancellazione dell’esenzione contributiva di 2 anni per gli imprenditori agricoli under 40 e l’assicurazione obbligatoria contro gli eventi climatici ha scatenato nel nostro Paese una protesta nelle sue prime fasi autorganizzata fuori dal controllo di Coldiretti, Confagricoltura e Cia.
5. Nel frattempo i suoli si impoveriscono, la siccità fa sentire il suo costo per l’agricoltura e l’allevamento, le colture vengono sempre più vincolate a produzioni non alimentari – si pensi al bussiness dei biogas, sostenuto da incentivi statali sostanziosi e appetibili. La cementificazione si mangia ettari su ettari di alle coltivazioni e la situazione ecologica generale peggiora pericolosamente senza che nessun governo vi presti attenzione. La questione ambientale sembra essere diventata un costo da rimandare a tempi migliori, relegata agli ultimi posti delle agende politiche della quasi totalità dei partiti e della stessa Unione Europea.
Intanto il Salone internazionale della pera, eccellenza italiana, che si doveva tenere a Ferrara il novembre scorso è stato spostato a marzo 2024 per la crisi che ha colpito il settore: una produzione di 180 mila tonnellate di pere nel 2023, il minino storico, con un calo del 63% rispetto all’anno precedente. Meglio non stanno gli altri Paesi europei con un calo (solo) del 12%. Nomisma ha stimato il calo della produzione di pere del 75% rispetto al 2018 (nel 2010 la produzione era di 900 mila tonnellate e l’Italia era il primo produttore e esportatore in Europa). Motivo? diminuzione della superficie coltivata ridottasi del 35% in 12 anni e soprattutto l’effetto negativo dei cambiamenti climatici repentini degli ultimi anni che hanno portato con loro anche nuovi parassiti.[5] A soffrire dei cambiamenti climatici e dei suoi effetti collaterali è tutto il settore ortofrutticolo e di conseguenza anche la domanda di frutta e verdura. I prezzi al consumo, come da copione in questo mercato sotto controllo della Grande Distribuzione, sono lievitati enormemente con forti speculazioni spingendo la domanda verso cibi pronti, prodotti surgelati con grande giovamento, guarda caso, della GDA (supermercati), che ha raggiunto la quota del 78% di volumi di vendita di frutta e verdura. Intanto, strangolati dai prezzi, molti produttori ortofrutticoli hanno chiuso i battenti e sradicato i frutteti: negli ultimi 15 anni si sono persi 100 milioni di alberi da frutto.[6]
6. Questo è il quadro complessivo nel quale si stanno svolgendo le mobilitazioni del mondo agricolo. Convitato di pietra, del tutto assente nelle rivendicazioni, nel protagonismo dei partecipanti alle dimostrazioni e ai blocchi stradali, nell’agenda politica dei governanti e nella narrazione massmediatica e social è la massa dei lavoratori agricoli subordinati, costretti alla raccolta nei campi con salari da fame, spesso posti in condizione semi servile, per lo più composta da migranti extracomunitari e comunitari, richiedenti asilo o persino privi di alcun documento di soggiorno, sostanzialmente clandestini. Se si eccettuano i circuiti legati al movimento Via Campesina che ne fa cenno nei propri documenti e nelle dichiarazioni, nessuna organizzazione sindacale di settore e nessun leader emerso dalla protesta di questi giorni ne fa menzione o chiede diritti e salario dignitoso per questi lavoratori che, di fatto, garantisce la cura e l’afflusso dei prodotti agricoli nella grande distribuzione alimentare.
Ha ragione Fabio Ciconte , direttore dell’associazione ambientalista Terra!, a osservare che il nodo che emerge dalle mobilitazioni è che “produrre cibo è economicamente insostenibile” perchè “se un agricoltore è (spesso) costretto a vendere sotto i costi di produzione, è chiaro che quando gli togli i sussidi o imponi restrizioni (ambientali o meno) scende in piazza per l’esasperazione”. Ha ragione a sostenere che ci si dovrebbe concentrare sul costo del cibo, “su quanto dovrebbe essere pagato l’agricoltore per il proprio lavoro, su quanto la distribuzione (i supermercati) comprime i prezzi della parte agricola e produttiva e su quanto dovrebbe costare il cibo sullo scaffale di un supermercato” e, quindi, anche sulla necessità di aumentare i salari e il potere di acquisto delle persone. Ha ragione a chiedere che vengano effettivamente applicate le direttive Ue sulle pratiche commerciali sleali, approvate nel 2022, che imporrebbero ai distributori di pagare ai produttori il giusto prezzo senza vendite sotto costo e che i prezzi agricoli non dovrebbero sottostare a speculazioni finanziarie; che le tante ragioni della protesta non vanno lasciate nelle mani delle destre, vedendole semplicemente come frutto di rabbia corporativa e contraria alla transizione ecologica.[7]
Ma per fare questo è necessario fare chiarezza sul carattere interclassista della composizione sociale del mondo agricolo; sul fatto che proprio questa caratteristica favorisca i più forti nel settore e le logiche corporative, egoistiche, anti ambientali e denunciarne la deriva. Di contro si tratta di sostenere quanti, oggi in posizione minoritaria nella protesta o marginalizzati nel settore, portano avanti la necessità di contrapporre a questo modello di sviluppo una agricoltura sostenibile, che produce cibo buono e di qualità, promuove pratiche agricole rispettose delle risorse naturali e delle potenzialità dei suoli, organizza filiere corte di distribuzione e chiede compensi, salari e diritti adeguati. Unire questi mondi oggi minoritari con quanti presta un lavoro subordinato in agricoltura. Insomma bisogna sporcarsi le mani, entrare nel merito della protesta, fare chiarezza e contrapporre questa prospettiva che guarda alla transizione ecologica urgente e necessaria alle logiche sovraniste e corporative dominanti.
Paolo De Marchi ADLcobas – Padova
4 febbraio 2024
[1] Si vedano per un approfondimento in merito due recenti articoli apparsi nel Il Manifesto. “Le radici della rabbia di un mondo diviso” di Fabrizio Garbarino, Il Manifesto, 1 febbraio 2024 e “Alle origini corporative della rabbia dei coltivatori” di Enrico Pugliese, Il Manifesto, 2 febbraio 2024.
[2] Mi permetto di rimandare al mio “La lotta dei pastori sardi chiama in causa la critica della globalizzazione neoliberista agroalimentare”, reperibile in https://adlcobas.it/approfondimenti/la-rivolta-dei-pastori-sardi-chiama-in-causa-la-critica-della-globalizzazione/
[3] Daniela Passeri “Il latte artificiale produce solo danni”. Intervista al sociologo olandese Jan Douwe Van Der Ploeg, in “l’ExtraTerrestre” supplemento settimanale del Il Manifesto del 21/02/2019
[4] Julie Reux “Corsa al rosé” in Le Monde diplomatique, edizione italiana, gennaio 2024.
[5] Francesco Bilotta “Clima, la <scomparsa> delle pere. Una crisi tutta Made in Itay” in “l’Extraterrestre”, Il Manifesto, 25 gennaio 2024
[6] Francesco Bilotta “Poca frutta sulle tavole degli italiani”, in “l’Extraterrestre”, Il Manifesto, 25 gennaio 2024
[7] Fabio Ciconte “Vessati e inascoltati, le ragioni sacrosante degli agriocoltori”, Domani, 31 gennaio 2024
Importante problematica da sviscerare.
Concordo pienamente con gli ultimi due paragrafi che mi richiamano i principi del commercio equo e solidale, un commercio, che comprende quello agricolo, che si basa sul rispetto delle persone e la tutela dell’ambiente. Chissà che ci accorga che a lungo andare è la scelta migliore in tutti i sensi … per la salute fisica e mentale dei lavoratori, per l’ambiente e le persone, per il commercio stesso.