Sanità pubblica sempre più privata: una crisi che arriva da lontano

Il quasi collasso del SSN di fronte all’emergenza covid ne ha evidenziato il profondo stato di crisi in cui versa da tempo. Basti pensare alla cronica carenza di personale o al passaggio di consegna al settore privato di una cospicua parte di funzioni, servizi e prestazioni (specie quelle più remunerative), alla carenza di posti letto e alla precarietà del servizio di pronto soccorso, chiamato a supplire in emergenza alle carenze croniche del servizio di prevenzione e assistenza sanitaria del territorio. Intervento di Paolo De Marchi ADL-Cobas Padova   

La sanità pubblica è a rischio estinzione a causa del profondo processo di privatizzazione in corso.

Sin dal lontano 1978, quando venne istituto con la legge n. 883 il Sistema Sanitario Nazionale (SSN), le pressioni contrarie alla sua creazione messe in atto sino dalla sua nascita dal settore mutualistico, migrato successivamente in quello assicurativo e dal settore privato stanno vincendo la partita. Questo processo di svuotamento dei principi fondativi alla base del SSN è avvenuto grazie al consenso trasversale delle forze politiche che si sono succedute al governo del Paese ma ha avuto una accelerazione inarrestabile a partire dagli anni 90 con la stagione delle cosiddette “riforme” del sistema: vere e proprie controriforme o meglio manomissioni dell’impianto universalistico del SSN volute sia da governi di centro destra che di centro sinistra.

Il quasi collasso del SSN di fronte all’emergenza covid ne ha evidenziato il profondo stato di crisi in cui versa da tempo. Basti pensare alla cronica carenza di personale o al passaggio di consegna al settore privato di una cospicua parte di funzioni, servizi e prestazioni (specie quelle più remunerative), alla carenza di posti letto e alla precarietà del servizio di pronto soccorso, chiamato a supplire in emergenza alle carenze croniche del servizio di prevenzione e assistenza sanitaria del territorio.

Le dimissioni e la carenza di personale medico e infermieristico

L’impatto della pandemia con questo sistema malato, spezzettato in tanti sistemi regionali, oltre ad aver provocato molti lutti sia tra la popolazione che tra il personale medico e infermieristico, causa la carenza e l’inadeguatezza del materiale di sicurezza a disposizione (vedi la carenza di mascherine) e per strutture e strumentazioni insufficienti e inadeguate, ha fatto esplodere un disagio sino a quel momento ancora in parte sottotraccia. In particolare il profondo stato di disagio e disaffezione presente nel personale sanitario nei confronti di una organizzazione del lavoro sempre più impostata su tempi lunghi di permanenza in servizio, sul ricorso massiccio allo straordinario, su pause e riposi ridotti, su ferie non godute e remunerazione non adeguata al carico di lavoro richiesto. Frutto di tutto ciò è l’emersione di un fenomeno già presente ma meno rilevante statisticamente nel periodo precedente la pandemia da covid-19: quello delle dimissioni dall’impiego che va ad aggravare la carenza di personale nel servizio sanitario pubblico. Fenomeno che non è presente solo nel settore sanitario anche se sinora poco indagato in Italia pur avendo raggiunto cifre significative.[1]

Nel nostro Paese dove, a differenza di altri, il mercato del lavoro è molto rigido e carente di opportunità e nuove occasioni lavorative, nel 2021 il fenomeno delle dimissioni volontarie ha riguardato circa 2 milioni di persone, soglia superata nel corso del 2022 (il tasso di abbandono nel terzo triennio del 2022 è stato del 3,2%, il più alto negli ultimi 15 anni).

Il Rapporto annuale 2022 sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha rilevato un aumento tendenziale di dimissioni dal 2020 del 30,6%. Queste si sono verificate in misura maggiore nelle regioni del Nord, Lombardia e Veneto in particolare.

Secondo un rapporto del 2022 della Fondazione dei consulenti del lavoro, nei primi 3 trimestre del 2021 le dimissioni sono state 1 milione e 372 mila (+ 6,3% rispetto al 2019). Chi si dimette? Principalmente uomini e per un 52,9% da un lavoro a tempo indeterminato mentre per chi lavora part-time e a tempo determinato la percentuale è del 37,9%. Uno su due (44,7%) si dimette senza alternative lavorative e si trova disoccupato anche 3 mesi dopo averlo fatto. La maggioranza delle dimissioni si concentra nei servizi (69,4%), in particolare nel commercio e nelle attività di alloggio e ristorazione, cioè nel cosiddetto lavoro povero, settori con minimi salariali previsti per contratto (quando c’è) indecenti ma anche, per il 7,1%, nel settore sanitario. Il fenomeno delle dimissioni, che riguarda sia la disaffezione da lavori retribuiti inadeguatamente che lavori con carichi orari sempre più predatori dei tempi di vita delle persone, è decisamente molto più esteso in Paesi come gli Stati Uniti, dove nel 2021 si sono licenziati 48 milioni di persone, passati a 50 milioni e mezzo nel 2022; la Cina dove il movimento di protesta Tang ping (“sdraiati”) nato contro il sistema 996 che richiede un tempo di lavoro giornaliero lunghissimo (dalle ore 9 alle 21) per 6 giorni settimanali o, infine, l’India come ricerca individuale di un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro. Ma il fenomeno ha assunto proporzioni rilevanti anche in Europa, specie in Gran Bretagna e, come abbiamo visto, anche in Italia.

A questo proposito cito un caso veneto. Nell’aprile del 2021, durante il processo di fusione tra le Aziende sanitarie 3 di Bassano e 4 dell’Alto Vicentino, l’intero organico medico del reparto urologia dell’ospedale Santorso si è dimesso senza che le autorità sanitarie e regionali abbiano fornito spiegazioni credibili. Secondo il consigliere comunale di Schio, Carlo Cunegato, uno dei principali animatori del Comitato Sanità Pubblica Alto Vicentino, si è trattato di una “situazione unica, mai vista nel nostro territorio e probabilmente in altre realtà ospedaliere italiane” causa “l’esistenza di problemi gravi verosimilmente sottovalutati o non adeguatamente gestiti dalla direzione aziendale”, probabilmente legati alla fusione dell’Urologia del Santorso con quella di Bassano. Il fenomeno in realtà non è così isolato. Non sempre si presenta con casi così eclatanti; a volte è un fenomeno strisciante come avvenuto all’Ospedale di Schiavonia (Monselice) con le numerose dimissioni di medici e mediche durante e subito dopo la crisi pandemica. I numeri delle dimissioni in Veneto non sono, infatti, trascurabili: circa 1.582 medici/che e 2.613 infermieri/esi sono dimessi dal SSN tra il 2019 e il 2022, segno di un malessere che in soli 3 anni ha visto andare via un medico su quattro.[2]

Altro episodio. Il 4 maggio 2022 al Cardarelli di Napoli 25 medici di Pronto Soccorso hanno presentato un preavviso collettivo di dimissioni denunciando le condizioni inadeguate a rispondere al diritto di assistenza per gli utenti del servizio di pronto soccorso. Scriveva a questo proposito uno dei medici d’urgenza del Cardarelli che “un sistema sanitario stà o cade sul suo sistema di emergenza”. “La crisi in pronto soccorso” continuava “è dovuta al fatto che [questi] sono stati ghettizzati da un sistema sanitario in cui si è introdotto un seme velenoso che oggi ha prodotto il mostro, che è quello in cui in sanità si ammette il profitto”.

Simeu – Società italiana medicina di emergenza-urgenza, stima che a fronte del fatto che praticamente ogni 90 secondi in Italia nei pronto soccorso c’è un’emergenza, circa 100 medici al mese abbia lasciato il proprio lavoro nel 2022, numero che equivale alla chisura di 5 pronto soccorso ogni 30 giorni. A tamponare il fenomeno non è stata la ricerca delle cause di questa disaffezione di massa e delle soluzioni per risolverle ma il ricorso al privato attraverso il massiccio utilizzo dei medici a gettone (non solo nei pronto soccorso per altro). Simeu ne stima 15 mila in utilizzo per 18 milioni di prestazioni l’anno. Solo per dare alcune percentuali regionali il Veneto vi fa ricorso per il 70% del personale, la Liguria per il 60% e il Piemonte per il 50%.

Il ricorso ai medici a gettone si inscrive nel processo di esternalizzazione che, attraverso lo strumento dell’appalto, riguardava sinora nel settore sanitario servizi accessori come pulizie, guardiania, portineria, mensa, lavaggio materiale. Cito a tale proposito un piccolo caso della bassa padovana avvenuto nel dicembre 2021: l’esternalizzazione del punto di primo intervento all’Ospedale (declassato) di Montagnana (PD). Il Punto di intervento che ha sostituito il precedente Pronto Soccorso in un territorio vasto – il montagnanese – e lontano dall’ospedale di riferimento – Schiavonia – è stato appaltato dall’ASL 6 a un raggruppamento di imprese private per un periodo breve – un anno – ovviamente rinnovabile. La motivazione addotta dalla direzione ASL è la carenza di personale.

Un’indagine Anaao Assomed mostra come tra i medici specialisti le dimissioni volontarie annue siano nell’ordine di 3000 casi ai quali vanno aggiunte le uscite per pensionamento per capire quanto sia grave la carenza di personale medico nel nostro SSN. Sommando i due fenomeni si stimano in circa 8000 i medici specialisti che ogni anno lasciano il Sistema pubblico. L’indagine stima che entro il 2024 ci saranno circa 40 mila medici in meno: ai 12 mila andati in pensione nel triennio 2019-21, l’indagine somma i 10 mila che vi andranno nel periodo 2022-24, i circa 18 mila dimissionari che potrebbero uscire nello stesso periodo visto che già 9.000 lo hanno fatto nel triennio 2019-21. La percentuale di medici dimissionari è alta in tutte le regioni (2,9%) e il dato è preoccupante visto che un sondaggio sempre di Anaao-Assomed rileva che solo il 54% dei medici oggi presenti nel SSN si vede ancora al suo interno nei prossimi 2 anni.

La situazione per il personale infermieristico non è diversa. Secondo il sindacato Nursing-Uple dimissioni di infermieri/e e operatori/trici sociosanitari/e (Oss) nel 2021 sono state 2000 in soli 6 mesi.

Mancano circa 70 mila infermieri/e secondo la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnpi), sia negli ospedali che nel territorio: carenza destinata ad acuirsi per via dei pensionamenti vista la stima di fuoriuscita in tal senso di 21 mila unità tra il 2022 e il 2027 e per la cessazione del personale a tempo determinato assunto in quote significative negli ultimi anni a causa del blocco del tournover. Secondo il XVIII Rapporto sanità del Centro per la ricerca economica applicata alla sanità (Crea) servirebbero dai 30 ai 40 mila nuovi infermieri l’anno per compensare questa situazione ma il fatto che le retribuzioni sono inferiori del 40% rispetto alla media europea non incentiva molto a intraprendere questa professione molto delicata e dai duri carichi di lavoro. Tanto meno il permanere di una organizzazione del lavoro praticamente all’insegna dell’emergenza oraria.

L’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) ha fatto il punto della situazione del personale sanitario in Italia e ha rilevato che nel 2020 i dipendenti totali erano circa 617.000 di cui il 68% donne. Di questi il 72% era personale sanitario. Per quanto riguarda i medici però la loro età è molto elevata, il 56% è sopra i 50 anni e quindi 1 su 3 andrà in pensione nel quinquennio 2022-27. La sempre minore appedibilità (voluta direi) della professione medica nel SSN fa pensare ai ricercatori Agenas che dei circa 65 mila neospecialisti che verranno formati nei prossimi anni solo 1 su 2 possa accettare di lavorare nel servizio pubblico.

La crisi del SSN evidenziata dall’impatto con la pandemia da covid-19 ha posto la carenza di personale come una delle grandi emergenze, se non la principale, del sistema. Qualsiasi nuova impostazione si voglia adottare per riformare il SSN non può prescindere dalla soluzione di questa emergenza; eppure il PNRR non prevede fondi specifici per nuove assunzione e, rimanendo solo alla carenza di infermieri/e, guardando ai tagli del personale adottati dai governi Berlusconi, Monti e Renzi, il rapporto infermieri/territorio è sceso a 5,6 ogni 100 abitanti contro una media Ocse di 8,8 (in Germania la media è del 12,9 e in Francia del 10,5). In Italia un/a infermiere/a dovrebbe servire 11 pazienti quando un giusto rapporto dovrebbe essere almeno di 1 ogni 6 pazienti (in alcune regioni italiani il rapporto è lievitato a 1 ogni 17 pazienti).

Le controriforme e i loro effetti sulla sanità pubblica

Come dicevamo in apertura di questo contributo l’impatto della pandemia ha giocato sicuramente un ruolo rilevante nell’accelerare le dimensioni di questi fenomeni e di queste carenze. Il nostro SSN è incapace di rispondere al dettato della Costituzione che sancisce il pari diritto per tutti alle cure e alla salute.

La legge istitutiva del SSN, n. 883 del 1978, basata sull’universalità, l’uguaglianza e l’equità delle cure e dell’assistenza sanitaria è stata il risultato del lungo e potente ciclo di lotte degli anni 60-70 ma i suoi principi cardineglobalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona – non sono stati mai veramente applicati se non , forse e parzialmente, nel primo periodo di avvio della riforma.

Gli interessi del settore privato e assicurativo, la loro connivenza con una parte preponderante del sistema politico, la progressiva accettazione da parte di tutto il sistema politico, in particolare della sinistra istituzionale dei principi neoliberisti impostisi a partire dalla fine degli anni 70 e i guasti provocati dal consociativismo, che ha chiuso la stagione dei conflitti sindacali e sociali, ha portato all’imposizione nella sanità della compatibilità finanziaria tra spesa e PIL, favorendo lo snaturamento privatistico del sistema

La compatibilità è diventata l’ideologia dominante nella gestione del sistema sanitario pubblico e senza una radicale messa in discussione di questa non sarà possibile fermare l’affermazione privatistica dello stesso. Qualsiasi movimento si ponga l’obiettivo di fermare la deriva privatistica della sanità non può prescindere da un cambio di paradigma fondativo: la salute non è una merce, il sistema di prevenzione, cura e assistenza non può sottostare a parametri di compatibilità economica e a valorizzazioni di profitti. Il rapporto tra i principi universalistici che devono guidare la gestione della sanità e i finanziamenti pubblici necessari non può prescintere, a sua volta, da una radicale ridiscussione del sistema fiscale su base proporzionale e su una differente visione delle priorità di destinazione delle risorse di bilancio pubblico.

Le diverse “riforme” che dagli anni 90 si sono susseguite hanno ognuna portato acqua alla privatizzazione della sanità pubblica e alla creazione di un sistema variegato di sanità pubblica regionalizzata i cui vizi, iniquità, insufficienze sono sotto gli occhi di tutti/e. Dalla riforma del 1992, Amato-De Lorenzo (DL 502/giugno 92 Riordino della disciplina in materia sanitaria a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992 n.421),  alla stagione berlusconiana; dal riforma della riforma della riforma del 1999, Governo D’Alema, ai provvedimenti del governo Monti e poi Renzi, per terminare con i tagli del governo Conte I e II e, infine i propositi e i tagli ulteriori previsti dal nuovo governo della destra meloniana-salviniana, il processo di svuotamento dei principi cardine della Legge 883/78 a favore della privatizzazione della sanità non ha avuto interruzioni.

Le politiche sanitarie post-covid  

A fronte di ciò ci si poteva meravigliare che il SSN andasse in collasso di fronte a un fenomeno impattante come la pandemia da covid-19? Impattante ma non imprevisto. Per cui l’impreparazione diventa una colpa del sistema politico che va attribuita, appunto, al depauperamento del SSN. Da tempo l’OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità metteva in guardia i diversi Paesi sul rischio pandemici da virus sempre più frequenti. Basta aver letto il bel libro di David Quammen “Spillover”[3] per capire che, da molto tempo, in alcune parti del mondo, specie in Africa e in Asia, si erano registrate crisi pandemiche determinate da salti di specie di virus virulenti; che molti team scientifici erano impegnati nel ricercare origini delle pandemie, cure adeguate, vacini; che sistemi sanitari nazionali, in Asia in particolare, avevano dovuto provvedere ad attrezzarsi all’impatto con virus simili o della stessa famiglia del covid-19. Ma fino a quando la pandemia non ha inceppatto il sistema mondiale della produzione e circolazione delle merci, l’Occidente industrializzato non ha predisposto alcuna contromisura preventiva. Quanto meno dotando i propri sistemi sanitari di strumentazione e mezzi adeguati alla bisogna. Lo si è visto in particolare nel nostro Paese con le  prime cure prestate ai contagiati dal personale ospedaliero praticamente a “mani nude”, senza dispositivi di sicurezza adeguati o sufficienti, senza protocolli specifici; lo si è visto drammaticamente nei Pronto Soccorso con i contagiati nella prima fase dell’emergenza a fianco di altri malati o utenti in attesa di diagnosi e cure per carenza di posti letto e di strutture e di protocolli di sicurezza specifici; lo si è visto infine quando i contagiati in eccesso negli ospedali sono stati spostati, come in Lombardia, nelle case di cura o di riposo per anziani, insieme alla frazione più fragile e a rischio della popolazione con i risultati tragici che conosciamo. Tutto questo non è stato un accidente divino ma va imputato agli effetti del processo di privatizzazione del SSN.

Ci si chiede: serviva, forse, destinare prudenzialmente e preventivamente fondi alla dotazione di dispositivi di sicurezza anche in assenza della certezza del loro utilizzo in condizioni di emergenza?; serviva destinare per tempo fondi alla ricerca pubblica su cure e vacini su virus che in parti del mondo si erano rivelati sempre più frequentemente mortali e devastanti?; serviva potenziare reparti adeguati alla bisogna anche se non immeditamente redditivi?

Si se il sistema sanitario rispondesse ai principi fondativi sopra esporti. Evidentemente no secondo l’impostazione neoliberista dominante, tanto più in un Paese, il nostro, che ha disinvestito continuamente sulla sanità pubblica. No, se pensiamo a come in tutta Europa si è abdicato da tempo alla ricerca pubblica in sanità a favore di Big Farma. Anche questo è nervo scoperto evidenziato dall’impatto pandemico sulle nostre società: le aziende farmaceutiche investono prevalentemente su terapie redditizie nel breve periodo piuttosto che in programmi di ricerca di maggiore impatto sociale, decisamente meno profittevoli.

Sino al 1978 in Italia non era possibile brevettare i farmaci: lo Stato disponeva attraverso la partecipazione nel gruppo Montedison di una industria farmaceutica sostanzialmente pubblica. Non era tutte rose e fiori ovviamente ma garantiva un indirizzo di ricerca pubblico che le pressioni delle multinazionali farmaceutiche con l’avvento della proprietà intellettuale sui farmaci hanno smantellato. In piena egemonia neoliberista, dagli anni 80 in Italia e all’estero la produzione di farmaci e terapie è fondata su una divisione del lavoro tra pubblico e privato che assegna la ricerca di base, a alto rischio economico al pubblico e i suoi risultati, se positivi e promettenti, al privato per la trasformazione in prodotti industriali brevettati dalle aziende farmaceutiche che poi lo Stato ricompra a caro prezzo. Il pubblico Ppaga la ricerca e paga poi il risultato per la gioia del settore farmaceutico privato.

Massimo Florio, Simona Gamba e Chiara Pancotti per il Forum Disuguaglianze e Diversità stimano che il finanziamento pubblico per lo sviluppo dei vacini contro il covid sia stato di 30 miliardi, cioè quasi il doppio di quanto investito dalle aziende private. Il pallino rimane però in mano agli interessi privati come ammette la Commissione Covid istituita dall’Unione Europea. Nel suo rapporto ammette: “Le autorità pubbliche e le istituzioni private che stabiliscono gli obiettivi delle ricerche non hanno dato priorità agli investimenti sui patogeni ritenuti pericolosi per la salute pubblica. Nonostante il potenziale pandemico dei coronavirus fosse già stato riconosciuto prima della pandemia di Covid-19, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono stati limitati a causa della mancanza di interesse commerciale”.[4]

Ammissione di colpa tardiva che non vede, per altro, cambiamenti di rotta nelle politiche successive al dopo covid-19. L’Ocse mostra come in Italia la spesa sanitaria per abitante, pubblica e privata, nel 2022 è stata inferiore a quella prevista nei maggiori Paesi europei: 4.290 dollari, poco più della metà di quanto speso in Germania (oltre 8.000 dollari) e un pò meno che in Francia (6.500 dollari). Le stime di spesa nazionale per il 2025, pari al 6,5% del Pil, non solo sono molto al di sotto di quanto previsto nei maggiori Paesi europei ma anche sotto ai livelli pre-covid. Il Governo delle destre procede, quindi, verso un ulteriore definanziamento del SSN e il contemporaneo dirottamento di risorse pubbliche verso la sanità privata.

Vanno in questo senso la riforma fiscale che abolisce l’Irap, finora destinata a finanziare la sanità, estende la flat tax massacrando il principio della progressività fiscale, aumenta le agevolazioni per le assicurazioni private. Tutto questo avrà un effetto immediato di riduzione delle risorse pubbliche per la sanità. Inevitabilmente cresceranno gli affidamenti di servizi a privati accreditati e le esternalizzazioni di cui dicevamo poco sopra: con convenzioni e contratti la responsabilità parziale e totale delle forniture di servizi clinici e non clinici passeranno ai privati inun  Paese dove la quota di spesa sanitaria pubblica destinata a operatori privati per servizi svolti è arrivata al 22% (Lazio e Lombardia persino al 30%). Intanto la spesa sanitaria direttamente sostenuta dai cittadini per l’acquisto di servizi sanitari privati out of poket che rappresenta già il 20% della spesa sanitaria complessiva, non potrà che lievitare ulteriormente.

Il trasferimento di fatto di risorse pubbliche al privato, si badi bene incentivato dalle politiche dell’attuale governo ma fulcro delle politiche anche dei governi precedenti, si tradurrà (o meglio si sta già traducendo) in nuova domanda per ospedali e centri diagnostici privati e aumenterà i profitti delle aziende farmaceutiche. Di fianco a questo cresce intanto il ruolo delle società di assicurazione che forniscono servizi sanitari, favorite dal welfare aziendale e dagli incentivi previsti di defiscalizzazione dei contributi pagati dalle imprese. Non a caso questa gustosa partita di profitti sta attirrando da tempo processi di concentrazione di imprese private e multinazionali anche straniere in campo diagnostico, assicurativo e farmaceutico.[5]

E poi c’è il PNRR la cui stesura è quella voluta dal governo dei migliori a guida Draghi, la cui filosofia dominante è quella neoliberista. Nel PNRR redatto dai “migliori” non sono previsti aumenti di spesa corrente per far funzionare le immaginifiche future nuove strutture – dalle Case agli Ospedali di comunità per citarne alcune – cioè spesa per dotare il sistema del necessario personale. Per altro il nuovo Governo con le recenti proposte di revisione del Piano prevede di ridimensionare il portato di queste nuove strutture. Ma l’impianto del Piano, ridimensionato o meno, non risponde affatto alle necessità reali del SSN. Lo stanziamento previsto per le “missioni” relative al settore sanitario era di 15,63 miliardi. Le “missioni” principe previste sono “reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale” a cui erano destinati 7 miliardi e “innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale” con una dotazione di 8,63 miliardi. Il commento dell’Anaao-Assomed è stato impietoso: “i 15 mld sono appena l’8% del fondo europeo, molto meno di quanto destinato per il bonus edilizio. I 5,6 mld destinati per l’ammodernamento degli ospedali appaiono largamente insufficienti rispetto alle necessità”.[6]

Anche perchè 3,3 miliardi di questi ultimi sono assorbiti da progetti già avviati. Anche se il Ministero della Salute, all’epoca retto da Roberto Speranza, assicurava che i fondi destinati erano in realtà 18 e non 15 miliardi, solo 7 di questi erano destinati alla riorganizzazione della medicina di territorio, altra grave emergenza del SSN.

Il piatto forte del Piano per la sanità non era rispondere a queste emergenze ma l’infrastrutturazione tecnologica per la raccolta, l’elaborazione e l’analisi dei dati in concorso, guarda caso in concorso con il gigante del complesso industriale militare Gruppo Leonardo spa che, da tempo, ha avviato proficui accordi di collaborazione con l’industria farmaceutica. Se le connessioni con gli interessi dell’industria militare rimangono oscuri, certamente gli interessi del settore assicurativo risultano evidenti per l’appetibilità della partecipazione a progetti che hanno come oggetto la razionalizzazione dei dati medici degli utenti.

L’impostazione neoliberista risulta evidente nell’enfasi data nel PNRR all’obiettivo del rilancio della produttività anche in questo settore. Due processi vengono evidenziati a tale proposito: processo di ospedalizzazione specialistica di impronta privatistica, nel pubblico come nel privato e processo di razionalizzazione dell’offerta medica sul territorio in regime pubblico-privato.[7] Vista l’idelogia dominante nulla di buono all’orizzonte per gli utenti e per il personale sanitario.

I tagli nel bilancio pubblico per la sanità e i suoi effetti sulla salute

L’emergenza maggiore rimane invece la carenza di personale[8] a cui le politiche degli ultimi decenni rispondono con tagli al bilancio pubblico per la sanità. La Fondazione Gimbe stima che i tagli per la sanità italiana nei soli ultimi 10 anni sono stati di circa 37 miliardi, fondi risparmiati bloccando il turnover e tagliando i costi del personale. Secondo il dossier Sanità: allarme rosso. Gli effetti sul Sistema Sanitario Nazionale di dieci anni di taglio a cura della Federazione Cimo-Fesmed, tra il 2010 e il 2020 hanno chiuso 11 aziende ospedaliere, 100 ospedali a gestione diretta, 113 pronto soccorso, di cui 10 pediatrici e disattivate 85 unità mobili di rianimazione.

Le chiusure hanno provocato la perdita di circa 37 mila posti letto, 28 mila dei quali ordinari e quasi 10 mila di day ospital. Il dossier rileva che se i posti letto nelle strutture pubbliche sono stati tagliati pesantemente ( – 38.684), quelli nelle strutture private sono aumentati di 1.747. Anche questa ricerca insiste sulla perdita di medici e soprattutto sottolinea la perdita di 700 medici per il servizio di guardia medica con circa 1500 interventi in meno ogni 100 mila abitanti.

Ovviamente a risentirne è stata la speranza di vita, ridottasi significativamente e l’aumento conseguente del tasso di mortalità: sono aumentati i decessi per tumori, per diabete mellito, aumentano le malattie del sangue, i disturbi immunitari, le malattie del sistema nervoso, le polmoniti e le influenze del sistema circolatorio. Carlo Palermo e Chiara Rivetti nell’indagine Meno posti letto più morti[9]scrivono che meno posti letto, la sospensione dei controlli per malattie croniche, il sovraffollamento dei reparti e dei pronto soccorso, il rinvio delle visite di controllo ordinarie e degli interventi urgenti hanno causato un aumento della mortalità. Se in Europa questa è aumentata del 2% per ogni posto letto in meno, in Italia l’aumento è stato del 17%. Siamo in buona compagnia con Spagna (+ 18%) e Gran Gretagna (+ 22%) dove si sono registrate riduzioni analoghe di posti letto e tagli al bilancio della sanità. Dal 2010 al 2018 in Italia i posti letto per acuti ogni 1000 abitanti sono diminuiti dai 4,71 ai 3,14 (una riduzione del 18% in 8 anni).

Le trasformazioni di alcuni ospedali in hab covid e le limitazioni introdotte in tutta la struttura ospedaliera nazionale, insieme alle limitazioni relative ai servizi territoriali hanno aggiunto sicuramente criticità ulteriori ai dati riportati nell’indagine di Palermo e Rivetti. Pensiamo solo agli effetti delle sospensioni diagnostiche o alle forti limitazioni introdotte nel periodo della pandemia.

I tagli alla sanità già operati con la prima Finanziaria del Governo Meloni e quelli che con la prossima si prospettano peggioreranno ulteriormente la situazione della sanità pubblica: non a caso al recente Meeting di Rimini, organizzato da Comunione e Liberazione, il Ministro Giorgetti non ha lasciato spazi alla speranza di investimenti nelle prossima manovra finanziaria, rispondendo così indirettamente al Ministro della Salute sulla richiesta di 4 miliardi in più da reperire per la sanità. Per il rinnovo del contratto collettivo sanitari la partita economica a disposizione per trattare appare ben misera se non inesistente, probabilmente favorendo ulteriori dimissioni e disaffezioni. Intanto l’inflazione, causa soprattutto l’aumento dei prezzi energetici, ha già mangiato 15 dei 130 miliardi del Fondo sanitario nazionale 2023, trasformando il misero incremento nominale del fondo in un ulteriore taglio. La privatizzazione marciante, quindi, sarà sempre più evidente se non si riuscirà a produrre con la mobilitazione un freno al processo in corso e a invertire la tendenza agendo su tutti i fattori che concorrono alla subordinazione del sistema pubblico a quello privato.

L’eccellenza Veneta?

Chissà perchè la sanità in Veneto è ritenuta un’eccellenza come in Lombardia e Emilia Romagna. La pandemia, anche in questo caso, ha messo a nudo la non veridicità di questa affermazione per i tre sistemi sanitari regionali. Certo se paragoniamo la sanità di queste regioni a buona parte di quella di regioni del centro e del sud, possiamo parlare di eccellenze ma si tratta di una magra soddisfazione. Anche perchè sono proprio queste regioni, seppure con modelli differenti, a guidare la corsa alla privatizzazione della sanità.

Anche in Veneto si delegano sempre più funzioni, servizi, diagnostica al settore privato; si registra una forte carenza di personale (persino concorsi andati deserti) compensata con il ricorso alla esternalizzazione dei servizi e all’imporsi della presenza diffusa di medici a gettone; si sono sperperati grandi quantità di denaro pubblico negli anni per imporre il modello project financing nella realizzazione di opere ospedaliere che hanno ridotto i posti letto, i pronto soccorso, le disponibilità diagnostiche ma gravato il sistema di costi da ripianare.

A guidare la sanità in Veneto dal 2000 ad oggi è stato ininterrottamente il centro destra; dal 2005 l’assessorato regionale alla sanità è stato feudo indiscusso della Lega Nord che non si è mai opposta alla stagione dei project financing sostenuta dal Governatore Giancarlo Galan. Il project financing è stato un importante strumentoper l’ingresso del privato nella gestione ma soprattutto per il trasferimento a questi dei ricavi dal sistema ospedaliero. L’Ospedale di Schiavonia è stato uno degli ultimi progetti realizzati con questa tipologia anche se non si è trattato di un vero e proprio project financing ma di una “concessione di costruzione e gestione”, formula nuova coniata il primo anno di insediamento di Luca Zaia al governo della regione. Il committente in questo caso era pubblico ma i ricavi per i privati partecipanti alla realizzazione dell’opera erano garantiti tanto quanto con il vecchio sistema del project financing.

D’altra parte questo sistema aveva fatto il suo tempo e andava rinnovato visto il buco finanziario di denaro pubblico che aveva crato: nel 2010, al momento del passaggio delle consegne da Galan a Zaia, la sanità pubblica veneta presentava uno sbilanciamento di 66 milioni di euro rispetto all’anno precedente a favore della sanità privata (+ 17%) con finanziamenti di gran lunga superiori all’incremento Istat per servizi forniti da cliniche, ospedali e laboratori privati. Il peso economico per le casse regionali era di 145 milioni di euro l’anno per l’utilizzo allegro del project financing, con interessi di mora nei confronti dei fornitori, lievitati da 16,5 milioni a 36 milioni (+ 118%). La Corte dei Conti  avevaammonito il presidente regionale entrante, in sede di giudizio sul bilancio regionale firmato dal precedente presidente, Galan, a rivedere drasticamente l’utilizzo del project financing. Solo per la realizzazione dell’Angelo di Mestre la voce “altri oneri” era passata da 900 mila a 17,6 milioni di euro; la Corte dei Conti segnalava rischi simili di aumento dei costi per altre opere in cantiere, come l’ospedale di Castelfranco Veneto, Montebelluna, Treviso e Santorso. La relazione della Corte dei Conti rilevava inoltre lo sbilanciamento di finanziamenti verso le province dove maggiore era il peso dell’assessore alla sanità (leghista) di turno. Scriveva nella sua relazione a questo proposito: “La rete ospedaliera nella provincia di Verona è ridondante rispetto al panorama regionale e nazionale e l’effetto di un’offerta eccessiva di posti letto lo si riscontra sia nel tasso di ospedalizzazione, che nei costi assistenziali, causa determinante del disequilibrio economico delle aziende. In particolare l’azienda Ussl 22 ospita, accanto ad una rete ospedaliera pubblica sovradimensionata rispetto alla popolazione di riferimento, le due strutture convenzionate più importanti della Regione Veneto (Negrar e Pederzoli) che non si differenziano sostanzialmente tra loro per le specialità mediche erogate”.

Zaia ha sì predisposto un’ispezione dei propri servizi, dichiarando di voler segnare un cambio di passo rispetto a Galan ma, di fatto, i cambiamenti non sono stati nel segno della discontinuità. Non c’è stata alcuna nuova rotta nella politica sanitaria regionale dopo questo monito: si è continuato a favorire interessi privati indebolendo la rete ospedaliera diffusa, accusata di antieconomicità, si sono accentrate le decisioni con il riassetto delle Asl mentre si riducevano continuamente, a fronte di ospedali per acuti, i posti letto e i servizi di cura generica e per lungodegenza.[10]

L’Ospedale per acuti di Schiavonia (Monselice) come altri ospedali per acuti costruiti in Veneto risponde a questa logica anche se con uno strumento diverso dal project financing (ma è poi così diverso?). Nel suo caso la realizzazione ha comportato la chiusura di 2 ospedali, Monselice e Este, il ridimensionamento di altri due, Montagnana e Conselve, lasciando una utenza di 180 mila abitanti dispersi in 46 Comuni con un unico ospedale con una riduzione di posti letto passati dai quasi 900 dei 4 ospedali precedenti agli attuali 368 (ridottisi presto in 357 dicui 60 diurni). L’aumentata dispersione di richiesta di cure e prestazioni in Ospedali fuori provincia, inevitabile per abitanti di Comuni più prossimi a quello di Rovigo o di Legnago e in ragione delle evidenti carenze viabilistiche e di trasporto pubblico verso l’ospedale di Schiavonia, ha rappresentato un ulteriore costo per la vecchia USL17. Il bilancio 2015  presentava un buco di 28.746.000 euro e costi di esercizio di 361.930.000 euro, nonostante un leggero aumento di risorse fornite dalla Regione. Costi dovuti ai canoni che l’Azienda doveva pagare al concessionario privato per 26 anni. Costi analoghi ad altri ospedali veneti. Negli anni di avvio del nuovo ospedale della bassa padovana la spesa per la sua realizzazione è stata di 175 milioni di euro, di cui 65 di contributo privato; Regione e ULSS hanno sostenuto un investimento di 110 milioni di euro (tra gli 80 e i 90 milioni la Regione, i restanti l’Azienda) a fronte di un canone che l’ULSS si impegnava a versare ai privati di 24.960.000 (20.800.000 di canone effettivo e 4.160.000 di Iva) per 26 anni e 6 mesi per un totale finale di 670.000.000 di euro. Costi questi ulteriormente aumentati visto che il bilancio preventivo 2022 della ASL 6 presenta un canone annuale, comprensivo dei servizi, di 37 milioni di euro.

Il Santorso di Vicenza costruito in project financing non è andato meglio: costato 157.479.000 milioni di euro (71.460.000 versati dalla Regione, 7.026.272 l’Azienda), con un contributo privato di 78.972.875 milioni di euro, si porta sulle spalle un canone da versare ai privati per 30 anni (30.472.733 milioni di euro annui. Quale differenza tra l’uno costruito in project financing e l’altro costruito in “concessione di costruzione e gestione”? La differenza di spesa per il canone indicizzato ma nulla più. I profitti per i privati sono garantiti in entrambi e così il processo di privatizzazione e depauperamento dei servizi sul territorio.

La decisione della Regione di destinare dal 21 febbraio 2020 l’Ospedale di Schiavonia a hab covid, con la conseguente sospensione dei servizi (situazione analoga ad altri ospedali del Veneto destinati a questa funzione esclusiva e emergenziale) senza tenere conto delle specificità territoriali, del numero di utenti e delle loro necessità sanitarie – si pensi alla temporanea trasformazione del Pronto Soccorso in Punto di primo intervento” – ha determinato nei 2 anni in cui si è protratta questa condizione: 12.000 minori ricoveri, 35 mila minori accessi al Pronto Soccorso, 70 mila prestazioni da registrare in lista di attesa nel febbraio 2022. Nello stesso territorio, intanto, il privato convenzionato ha ottenuto profitti assolutamente eccezionali. Il caso dell’ospedale di Schiavonia non è isolato ma solo uno tra i tanti comuni a tutto il sistema pubblico della sanità veneta. Altro che eccellenza!

Esternalizzazione del lavoro povero

Un ultimo appunto riguarda l’esternalizzazione di servizi che flagella insieme al fenomeno relativamente recente dei medici a gettone la gestione pubblica. Un sistema di appalti consente di esternalizzare pulizie, guardiania e portinerie, servizi mensa ecc. a costi la cui economicità per le Aziende andrebbe meglio indagata. Certamente rimane che una lunga schiera di lavoratori svolge funzioni essenziali per il funzionamento delle strutture ospedaliere con contratti differenziati, prevalentemente multiservizi, ma pagati con salariali indecenti. Si tratta di una massa di lavoro povero normato da contratti di appalto che il pubblico sottoscrive pur sapendo di favorire una condizione di precarizzazione intollerabile.

Paolo De Marchi ADL-Cobas Padova                                                       


[1] Si veda sull’estensione del fenomeno a livello mondiale e in particolare la situazione italiana il prezioso saggio di Francesca Coin “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”, Einaudi, Torino 2023.

[2] Per la vicenda delle dimissioni dal reparto di urologia dell’Ospedale Santorso e le dichiarazioni del consigliere comunale Carlo Cunegato si veda M.Milone “Dimissioni di massa di Urologia: l’Usl 7 sulla graticola”, Vicenza Today 21 aprile 2022. Per i dati sulle dimissioni in sanità in Veneto L. Berlinghieri “Medici e infermieri in fuga dal pubblico. Dal 2019 si contano quasi 4200 dimessi in Veneto”, Il Mattino di Padova, 8 luglio 2022 e, più ampiamente, in Francesca Coin “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”, Einaudi, Torino 2023.

[3] David Quammen “Spillover”, Adelphi, Milano, 2020.

[4] Andrea Capocci “Il Cern della salute piace all’Europa”, Il Manifesto, 2 luglio 2023

[5] Si veda su questi aspetti Chiara Giorgi “Una lunga storia di tagli e favori ai privati. Un quarto della spesa fuori dal pubblico”, Il Manifesto, 24 agosto 2023. Sugli stessi argomenti, interessante anche Andrea Capocci “Manovra: la sanità piange, le case farmaceutiche meno”, Il Manifesto, 23 agosto 2023.

[6] Ho ripreso la dichiarazione del sindacato dei medici Anaoo – Assomed da Adriano Pollice “I nuovi investimenti rischiano di finire all’industria bellica e non alla sanità”, in Il Manifesto del 30 aprile 2021.

[7] Per una valutazione critica sul testo del PNRR varato dal Governo Draghi mi permetto di segnalare un mio contributo dal titolo “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: la ricetta neoliberista per uscire dalla crisi pandemica”, reperibile on line inhttps://www.padovanabassa.it/?s=piano+nazionale+di+ripresa+e+resilienza e in  https://adlcobas.it/associazione-diritti-lavoratori/piano-nazionale-di-ripresa-e-resilienza-la-ricetta-neoliberista-per-luscita-dalla-crisi-pandemica/

[8] Si veda sulla carenza di personale le dichiarazioni del segretario nazionale di Anaao Assomed, Carlo Palermo, in “La festa amara di medici e infermieri. <Diritti e tutele ci sono negati>”, Adriana Pollice, Il Manifesto dell’1 maggio 2021 e l’intervista al presidente degli ordini dei medici, Filippo Anelli in “Anelli <Nel Pnrr non ci sono le risorse per reclutare i professionisti sanitari>” a cura di Andrea Capocci, Il Manifesto del 12 maggio 2021 dove rileva la mancanza di partecipazione democratica dal basso ad una vera riforma dell’attuale SSN come avvenuto in parte nel 1978 e dove esprime perplessità sulla indeterminatezza dei soggetti che dovranno utilizzare i fondi per le misure previste, in particolare le Regioni.

[9] Carlo Palermo, Chiara Rivetti “Covid. Meno posti letto, più morti. Un indagine Anaao” in https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=93013

[10] Per ulteriori dati sulla privatizzazione veneta della sanità rimando all’articolo di Francesco Miazzi “Verso il declino della sanità pubblica nella bassa padovana” in https://www.padovanabassa.it/verso-il-declino-della-sanita-pubblica-nella-bassa-padovana/#more-5454 che pur concentrandosi sulla situazione della bassa padovana, delinea un quadro generale di privatizzazione del sistema pubblico.

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