Di solito in questa giornata si pensa ai femminicidi, i cui dati comunque risultano tragicamente rilevanti secondo i vari rapporti di Istat e del Ministero dell’Interno: 100 donne uccise nel 2021, 125 nel 2022. E nel 2023? Intervento a cura di Donne in Ekopark
Anche quest’anno siamo arrivate al 25 novembre consapevoli che non basta una giornata per ricordare e riflettere sui vari aspetti della violenza contro le donne, ma che è necessario un percorso continuo che metta in luce il sistema culturale e sociale che la sostiene all’interno di società in cui il patriarcato, per quanto poco visibile o mascherato, è ancora molto forte.
Di solito in questa giornata si pensa ai femminicidi, i cui dati comunque risultano tragicamente rilevanti secondo i vari rapporti di Istat e del Ministero dell’Interno: 100 donne uccise nel 2021, 125 nel 2022.
E nel 2023?
L’Osservatorio dei diritti segnala che al 25 ottobre 2023 i femminicidi in Italia erano arrivati a 100; più di metà delle donne ammazzate quest’anno (54) sono state massacrate da mariti, fidanzati, compagni ed ex per le “solite” ragioni, inaccettabili: gelosia, possesso, incapacità di accettare la separazione o le libere scelte delle partner, vendette, dimostrazione di potere, ritorsione. Non tutte le vittime erano giovani o giovanissime. Anzi. Trentacinque delle donne uccise quest’anno avevano più di 70 anni, altre 10 erano nella fascia tra i 60 e i 69 anni. Omicidi della e nella terza età, motivati dalle ragioni più diverse. E non pochi matricidi, di cui non si parla diffusamente, nonostante l’incidenza sul totale.
Ma quella del femminicidio è solo la punta dell’iceberg.
La violenza contro le donne si dipana su vari livelli e in vari ambiti: fisico, sessuale, psicologico, economico e si esprime attraverso lo stupro, le discriminazioni nell’istruzione, nella sanità, sul lavoro, in quella «cultura» che minimizza la violenza maschile e/o la giustifica cercando responsabilità nel comportamento delle donne.
Una cultura che permea la società e determina squilibri e dissimetrie di potere nelle relazioni di genere, come ha riconosciuto l’Onu nella Dichiarazione Sull’eliminazione della violenza contro le donne (1993) e la più recente Convenzione di Istanbul (2011).
Decenni di iniziative femministe – che hanno preceduto e stimolato interventi pubblici – hanno prodotto in cinquanta anni importanti strumenti che consentono oggi alle vittime di trovare assistenza, di rivendicare giustizia (dai Centri Antiviolenza, alle norme della legge 66/1996, al Codice Rosso, ecc.). E le donne vi fanno ricorso con una frequenza sempre maggiore, segno di una soggettività femminile che rifiuta il vittimismo, il silenzio, la vergogna.

Nel nostro territorio è attivo da decenni il Centro Veneto Progetti Donna – Auser, un’Associazione di volontariato – ONLUS www.centrodonnapadova.it che offre sostegno a donne, italiane e straniere, in difficoltà e coinvolte in situazioni di violenza e maltrattamento familiare e non.
Come si nota dal grafico, negli anni c’è stato un incremento notevole ed è un indicatore positivo: non implica che il numero di donne che si trovano in situazioni di violenza sia in aumento, ma significa che più donne trovano la forza e il coraggio di uscire dal silenzio per chiedere aiuto. Come dimostrato dall’indagine Istat dal titolo “La violenza contro le donne dentro e fuori dalla famiglia” del 2015, il dato sommerso, ovvero il numero delle donne che subiscono violenza, ma non ne parlano a nessuno, sarebbe del 90%, e meno del 5% delle donne si rivolge a un Centro antiviolenza.
Le forme di violenza più frequentemente segnalate dalle donne che si sono rivolte al Centro antiviolenza di Padova e provincia nel 2022 sono quella psicologica (856 donne) e quella fisica (629 donne). Per ordine di rilevanza seguono la violenza economica, rilevata in 302 casi, la violenza sessuale, subita da 152 donne, lo stalking riportato in 133 casi. Inoltre, 11 donne hanno subito forme di mobbing nel luogo di lavoro, in 8 casi le donne hanno subito una forma di segregazione. Le diverse tipologie di violenza hanno un’incidenza molto diversa in base al contesto, intrafamiliare o extrafamiliare, in cui queste si manifestano.

Di fronte a questi dati diventa ancora più chiaro quanto sia necessario ri-educarci tutte e tutti a distinguere il potere dalla sessualità, l’amore dal possesso, la sopraffazione dalla relazione, la differenza dalla subalternità, a essere consapevoli del proprio impulso e narcisismo e della necessità di porvi un freno. Perché il problema della violenza sessuale – se occorresse ribadirlo – è un problema maschile. Ed è su questo piano educativo e culturale, cioè proprio quello della prevenzione, che si evidenzia la responsabilità del vuoto di iniziative pubbliche: l’Italia è tra i paesi ultimi in Europa per l’inserimento dell’educazione sessuale nei programmi delle scuole.

Siamo consapevoli di quanto il linguaggio, espresso in parole o immagini, sia determinante nella formazione di una mentalità che porta a sviluppare atteggiamenti di violenza contro le donne sul piano delle relazioni personali e sociali e di quanto, perciò, si debba agire non tanto e solo sul piano individuale (la donna che deve sapere che esiste il lupo cattivo e deve prevenire e difendersi) ma sulle condizioni che determinano il rischio per tutte le donne di essere oggetto di violenza in tutte le sue forme e che richiedono, pertanto, un’azione collettiva e complessiva.
Per questo per il 25 novembre 2023 abbiamo organizzato a Monselice un percorso con una mostra e degli incontri che abbiamo intitolato
Sono solo parole? Il ruolo del linguaggio nella violenza di genere.
Abbiamo cercato di mettere in luce la responsabilità dei mass media nell’informazione attenta, corretta e consapevole (oppure distorta, ambigua, falsa) del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche. Le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza. La parola di chi opera a loro sostegno.
Per la nostra mostra abbiamo attinto in abbondanza suggestioni e materiali dal profilo Instagram di Michela Murgia a cui tutte siamo debitrici di analisi accurate, di parole profonde e generatrici di senso, di ironia capace di togliere il velo al perbenismo e all’omologazione.
A lei, sabato 25 novembre alle ore 11, dedicheremo una grande roverella del parco Buzzaccarini – lungo quello che abbiamo chiamato il Viale delle Donne – dove già due platani altissimi sono stati dedicati a Franca Rame e a Licia De Marco. Vi aspettiamo per ricordare insieme il suo grande contributo alla libertà femminile.
Di Michela Murgia, nostra maestra, riportiamo qui un articolo scritto da lei più di dieci anni fa e, purtroppo ancora molto attuale.
La cultura di morte
Michela Murgia – 25 novembre 2012
L’uomo è cacciatore. È da quando ho le orecchie per sentire che questo modo di dire ritorna inesorabile in ogni discorso in cui si voglia giustificare in un uomo l’attitudine all’incostanza sentimentale, l’insistenza ottusa nel corteggiamento o la frustrazione di chi si è visto sfuggire di mano la preda perché lei, rompendo le regole del gioco di ruolo, gli ha imposto un rifiuto netto e non previsto.
Lo dicono i padri ai figli e le madri alle figlie; se lo ripetono tra loro gli amici ammiccanti con una pacca sulle spalle e lo mormorano le donne alle amiche con un’alzata di occhi al cielo, tutti con la stessa leggerezza: «Eh, che ci vuoi fare… L’uomo è cacciatore e la donna è preda». Magari dopo averla detta sorridono. Non realizzano di avere dentro alla testa l’associazione micidiale tra seduzione e morte. Fanno finta di non ricordarsi che il cacciatore la preda la insegue per ucciderla.
Le donne in quella frase ascoltano una storia dove si dice loro che essere desiderate implica il rischio di essere uccise. Ogni volta che quella frase viene ripetuta, si consolida inconsapevolmente in chi ascolta la convinzione che quello che viene messo in scena a parole sia non solo accettabile, ma faccia addirittura parte della natura delle cose: l’uomo insegue, la donna scappa, l’uomo spara, la donna muore, amico: che ci vuoi fare? Il linguaggio comune è pieno di espressioni simili. Chi le usa non pensa ai loro sotto-testi, ma questi passano anche se chi li veicola non ne è perfettamente consapevole, perché le parole hanno un grande potere: confermano immaginari, consolidano visioni e generano realtà. Il numero di donne uccise dagli uomini ogni anno in questo paese parla chiaro: per quanto si cerchi ancora di rubricarli come casi singoli di follia circoscritta, i femminicidi appaiono sempre più chiaramente come un fenomeno culturale, la radiografia di una società maschilista in crisi, dove il prezzo della vita delle donne è messo in conto come danno collaterale alla perdita degli equilibri di ruolo. In questo processo di minimizzazione, le parole che usiamo per raccontare gli uomini, le donne e le loro relazioni hanno un peso enorme e ancora troppo poco considerato da chi pratica parola pubblica e ha la responsabilità di renderne conto. Così negli ultimi anni è accaduto che si siano mobilitate associazioni contro la pubblicità sessista, che le donne si siano organizzate anche in piazza per chiedere maggiore rispetto dalle istituzioni e che si sia alzata la voce per chiedere maggiori investimenti verso i centri di accoglienza e supporto contro la violenza. Ma in questo moto evidente di sensibilizzazione è accaduto anche che i professionisti della parola – giornalisti e giornaliste, professionisti televisivi e opinionisti a tutti i livelli mediatici – poche volte abbiano sentito altrettanto forte il desiderio di riflettere sul linguaggio che racconta la relazione tra i sessi e sulle sue conseguenze. Il modo in cui i quotidiani danno le notizie dei femminicidi è un esempio evidente di normalizzazione della narrazione violenta che riguarda i rapporti tra uomini/cacciatori e donne/prede.
Delitto Passionale, Violenza Familiare, Dramma della Gelosia, Raptus di Follia: sono tutte espressioni che ripetono e amplificano l’idea che amore e morte siano apparentati, che familiare sia un complemento di specificazione della violenza, che il sentirsi traditi o deprivati la possa giustificare e soprattutto che gli esiti estremi, quelli che lasciano le donne senza vita sui pavimenti delle loro stesse case, siano gesti fuori dalla ragione, colpe senza colpevoli, buchi neri dove far svanire ogni tentativo di lettura più complessa. È necessario che i narratori delle trame pubbliche si fermino e si riprendano la responsabilità delle parole. Occorre fare insieme la fatica di confrontarsi per provare a rivedere le trame che tutti abbiamo contribuito a consolidare; solo da una nostra differente volontà narrativa può scaturire la possibilità che il futuro delle donne sia un’altra storia.
Le sue opere principali (talvolta con altre autrici/autori):
Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, 2008
Accabadora, 2009
Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, 2011
L’incontro, 2012
«L’ho uccisa perché l’amavo». Falso! 2013
Chirú, 2015
Futuro interiore, 2016
Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, 2017
Istruzioni per diventare fascisti, 2018
L’inferno è una buona memoria. Visioni da «Le nebbie di Avalon» di Marion Zimmer Bradley, 2018
Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe, 2020
Morgana. L’uomo ricco sono io, 2021
Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, 2021
Noi siamo tempesta. Storie senza eroe che hanno cambiato il mondo, 2021
God Save the Queer. Catechismo femminista, 2022
Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, 2023