Recensione del libro di Michela Murgia, a cura di Martina Magon. In occasione de Il Maggio dei libri 2024, il 19 maggio alle ore 11.00 ci sarà un evento in onore di Michela Murgia al Parco Buzzaccarini di Monselice.
Nel 2011 esce il saggio “Ave Mary” col quale Michela Murgia ci invita a seguire il filo conduttore che unisce la religione alla visione della donna in Italia, dove “le persone che ricevono un’educazione cattolica continuano ad essere la schiacciante maggioranza e quelli che non la ricevono comunque la assorbono”.
L’autrice sottolinea che “Non è stato il cattolicesimo a inventare la prassi della subalternità della donna, né la concezione di inferiorità che la fonda; è anzi evidente che quell’idea esisteva da secoli” ma la Chiesa “ha scelto di legittimarla spiritualmente” facendola diventare dottrina.
Infatti, se “le ragioni dell’iniziale scelta maschilista e patriarcale” derivano dal periodo storico in cui il cristianesimo nacque e si sviluppò, non bisogna dimenticare che “il potenziale destabilizzante e innovativo dell’annuncio cristiano” avrebbe, in seguito, potuto e dovuto contribuire a modificare certi pregiudizi e conseguenti dinamiche che, benché radicati nei secoli, si scontrano con i valori proclamati nei Vangeli.
L’impronta culturale derivata da questa scelta conservatrice della Chiesa, condiziona le relazioni tra i generi “con tanta più efficacia, quanto meno viene compresa e criticata”.
Nel primo capitolo, l’autrice affronta la questione riferendosi a Eva e Maria.
Eva, la prima donna, che l’opinione popolare percepisce come principale responsabile del peccato originale fu, quindi, colei che condannò l’umanità a divenire mortale.
Sarebbe stato corretto “Riconoscere la colpa congiunta della coppia originaria” sottolineando la capacità di scelta in entrambi i progenitori ma “per capire il clima di colpevolizzazione che pesava sulla donna nei secoli iniziali della fede cristiana, basta leggere gran parte della produzione dei primi pensatori della Chiesa” che sottolineavano con vigore la colpa di Eva e conseguentemente delle sue figlie, relegandole ad una vita di espiazione e subordinazione.
In quest’ottica la dottrina del peccato originale ha creato nelle donne cattoliche una condizione di debito spirituale permanente nei confronti dell’umanità che può essere saldato “assumendosi la responsabilità degli altri, curandosene come vestali […] per poter continuare ad esistere in modo degno”.
Un compito che le donne hanno sempre avuto e che quindi le fa percepire, dai più, come intimamente portate per la cura ma al contempo c’è chi ne vede uno sfruttamento in qualità di ammortizzatrici sociali essendo il lavoro di cura (della casa e dei propri familiari) non pagato.
In tal modo, viene supportato un sistema che, dando per scontato il lavoro di cura casalingo, non ne riconosce l’importanza.
La possibilità di uno dei coniugi (inutile sottolineare che in genere è la donna a svolgere la mansione di casalinga) di uscire di casa per accedere ad un lavoro regolare a tempo pieno, e riconosciuto socialmente, deriva spesso anche da questa prassi che gli evita di rimanere a casa (o lavorare part time) per accudire figli e anziani e familiari non autosufficienti
o di provvedere ad assumere (molto spesso in nero e in base alla sua effettiva possibilità economica) babysitter, badanti e donne delle pulizie, sostituendosi, in questo modo, ad un welfare troppo lacunoso.
Il tema del peccato originale compare anche nel secondo capitolo rispetto al fatto che dalla seconda metà dell’Ottocento “la scoperta dell’epidurale esasperò un dibattito teologico sul parto indolore”.
I conservatori, prendendo alla lettera il testo biblico, si opponevano al suo utilizzo mentre i progressisti avevano una “visione più metaforica della condanna divina”.
Alla fine prevalse la corrente progressista che però si affermò molto lentamente.
Ancora oggi in Italia solo l’8% dei parti avviene con l’epidurale a fronte di una percentuale ben più alta nel resto dei paesi occidentali.
Murgia suggerisce che è interessante notare come essendo il dolore del parto a carattere esclusivamente femminile, l’ipotesi di rinunciare all’epidurale per unire le sofferenze del parto a quelle di Cristo in croce, non fu presa in considerazione.
Il riscatto, per le discendenti di Eva, è rappresentato da Maria che per l’immaginario collettivo è, in particolare, la Regina celeste assunta in cielo, “mediatrice tra la giusta ira celeste e la comprensibile debolezza terrena”, che però è un modello inarrivabile e
la Mater Dolorosa ai piedi della croce, icona del dolore permanente al capezzale del figlio, “vestale afflitta e funzionale, predestinata a divenire il modello per la femminilità di quasi venti secoli”.
Murgia osserva come “alla costruzione di una figura di donna docile e funzionale sia stata piegata anche la madre di Cristo” ma aggiunge che invece Maria di Nazareth fu un’anticonformista, libera e coraggiosa e si radica anche in lei l’originaria natura destabilizzante del cristianesimo in quanto Dio facendo di una ragazza la massima complice della salvezza del mondo, sovvertì la gerarchia uomo donna.
Nel terzo capitolo l’autrice affronta il tema della santità.
“La parabola della santità femminile è infatti ben diversa da quella che ha interessato gli uomini cristiani”.
Durante il suo pontificato Giovanni Paolo II proclamò beati, o servi di Dio, uomini laici distintisi per la visione evangelica che applicarono nel proprio lavoro mentre l’unica laica ad essere proclamata santa fu una madre morta di parto che scelse di non curarsi per salvare la figlia che portava in grembo.
Murgia sottolinea che “nessun uomo è mai stato beatificato per aver accettato di essere padre fino alle estreme conseguenze” e che “nel calendario dei santi, non c’è traccia delle moltissime donne che, come i santi e beati maschi, hanno dato la propria testimonianza di fede in spazi di vita politica, sociale, scientifica, professionale o comunque fuori dal limitato spettro di possibilità della sposa/madre/suora”.
Arrivati al quarto capitolo, l’autrice ci fa osservare come l’uomo abbia come figura di riferimento un Dio rappresentato come un anziano dalla barba bianca mentre la donna una Maria che sembra non invecchiare mai.
Queste immagini, secondo Murgia, sono speculari alla rappresentazione sociale dei sessi, in quanto all’uomo si fa meno pesare l’invecchiamento mentre la donna è più spesso destinataria di messaggi volti a percepirlo come un pericolo per la propria accettabilità sociale, essendo il suo principale valore sociale stabilito in base alla possibilità di essere fisicamente piacente e di poter procreare o comunque di essere una madre in forze.
Nel quinto capitolo Murgia si sofferma sulla parabola della dramma perduta che racconta di una padrona di casa che perde una moneta, per trovarla mette a soqquadro la sua casa e una volta trovata esulta ed invita le amiche a festeggiare con lei.
Una donna, sola e indipendente, si presta ad essere letta come immagine di Dio.
Un racconto scomodo in quanto “l’allegoria che suggerisce è inaccettabile per la sensibilità tutta maschilista dell’educazione cattolica tradizionale” ed è, infatti, la meno conosciuta delle tre parabole della misericordia (la pecorella smarrita, il figliol prodigo e la dramma perduta).
Infine, conclude con alcune riflessioni sul matrimonio cattolico che diversamente da quanto si possa pensare non ha come modello la famiglia della Natività.
La cosiddetta famiglia tradizionale deve invece ispirarsi all’unione mistica tra Cristo e la Chiesa, dove il modello per il marito è Cristo e per la moglie è la Chiesa.
Un rapporto di gerarchia e diseguaglianza poiché “la Chiesa senza Cristo non ha ragione di essere” mentre “Cristo preesiste alla Chiesa e sussiste anche senza di essa”.
“Quando ai coniugi cristiani viene chiesto di attenersi e riprodurre il modello Cristo/Chiesa nella loro vita comune”, sostiene Murgia, “si offende il sacramento del loro battesimo che ha posto Cristo come riferimento di santità per entrambi, l’esempio a cui devono tendere tutte le persone di fede” a prescindere dal genere.
Questo saggio ha preso origine da un convegno del 2009 dal titolo “Donne e Chiesa: un risarcimento possibile?”, al quale Murgia fu invitata a partecipare in qualità di relatrice assieme a due teologhe e col quale l’autrice, da cattolica e insegnante di religione, si addentra nel percorso intrapreso dalla Chiesa nei confronti delle proprie fedeli con la consapevolezza che da certe rappresentazioni errate “non esce nessuno se non ci decidiamo ad uscirne assieme”.
Alcuni lettori lo hanno definito illuminante e necessario, altri banale e privo di argomentazioni convincenti ma il suo pregio sta nell’evidenziare dati e scelte che sembrano solo in superficie non toccare il nostro vivere quotidiano.
Un libro da leggere anche alla luce del contesto attuale, basti pensare all’istituzione del Ministero della famiglia, l’introduzione dei pro-vita nei consultori, la spinta verso l’obiezione di coscienza rispetto alla legge 194, l’equiparazione dei contraccettivi alle armi militari, la diffusione dell’immagine – poco edificante – di coppie straripanti di individualismo che sostituiscono i figli con animali domestici (possibilmente provvisti di pedigree e toelettatura per poterli sfoggiare in pubblico), … Auliche declamazioni morali che hanno il sapore della vacuità tanto più ci si ostina ad allontanarsi dal nocciolo del problema:
la necessità di una valida educazione alla sessualità e ai sentimenti per entrambi i generi – fin da piccoli – e stabili e serie politiche di welfare che diano la reale possibilità a tutti i potenziali genitori di potersi permettere un figlio, se lo desiderano.
In occasione de Il Maggio dei libri 2024, ecco un evento in onore di Michela Murgia al Parco Buzzaccarini di Monselice:
Penso che il libro e la recensione che ne deriva debbano ancora una volta farci riflettere sul ruolo reale che la donna dovrebbe avere nella società e non quello che effettivamente ha.
Queste parole scritte dovrebbero ” aiutare ” a fare un passo in avanti verso la parità dei sessi che sembra sempre più lontano.