Il contributo di Lauso Zagato* già professore di diritto internazionale e di diritto UE.
1. Gita a Fratta … anzi alla Fratta
La modifica del titolo si impone. Prima di Ekopark 2024, pur sapendo che Oroboni era stato compagno di prigionia di Silvio Pellico allo Spielberg, dove era morto, ignoravo che fosse esponente del primo autentico movimento cospirativo anti-austriaco dopo il 1815, operante in Polesine. I membri del gruppo si definivano appunto “carbonari della Fratta” e finirono male perché qualcuno fece la spia (ma và, fatico a crederlo, gente che si vende e fa la spia in Italia! Chi l’avrebbe mai pensato …). Il mio Polesine tanto poco considerato si rivela all’occhio attento territorio tra i più vivi, non solo nel Veneto, o almeno così è stato per lungo tempo.
Dedicando una serata alla presentazione della casa-Museo di Giacomo Matteotti a Fratta Polesine (lunedì 26 agosto), ed una gita (forse sarebbe più opportuno chiamarla passeggiata patrimoniale) sul posto la successiva domenica mattina (1 settembre), Ecopark 2024 ha fatto una gran cosa, di cui andare fieri. Non senza ammettere di essere stati, tutti, colti di sorpresa e divertiti ad un tempo dal comportamento politicamente singolare di certa umanità che si è presentata la sera al parco. Denunciavano questi personaggi il fatto che gli organizzatori della serata avessero maliziosamente collocato nella locandina, alle spalle dell’immagine del protagonista, volgari papaveri rossi invece del nobile e qualificante garofano. La vicenda presenta profili paradossali[1] ma può tuttavia rivelarsi utile: intanto perché c’è il rischio che Matteotti venga fatto passare per una figura di coraggioso … anticomunista, ucciso casualmente dai fascisti. Anche per motivi familiari, ciò appare ai miei occhi intollerabile. Ancora, e soprattutto, credo che una riflessione odierna sui nodi (groviglio di nodi) di allora aiuti ad affrontare, sia pure in modo irrituale e alla rinfusa, problemi assolutamente contemporanei.
Sul primo punto mi sbrigo velocemente: essendo la mia famiglia paterna originaria del Polesine, essendo proprio i funerali di Matteotti a Fratta il prodromo (la causa immediata) di un evento drammatico che la ha poi a lungo accompagnata – i fascisti erano presenti, dai lati, al funerale, segnavano e prendevano nota, poi le squadre partivano (partivano e arrivavano a destinazione: mio pro-zio, fratello minore del nonno, ne avrebbe conseguito una invalidità permanente) – non ho mai vissuto nell’infanzia tracce della pretesa cancellazione della figura di Matteotti dalla memoria ufficiale del movimento operaio. Ricordo piuttosto, nell’infanzia sull’Adige, le dure discussioni degli uomini di famiglia sul se fossero stati i figli di Matteotti a tradire, accumunandosi alla cupa quanto ambigua figura di Saragat, o piuttosto Pietro Nenni (perché aveva fatto il fronte popolare con il pci)[2]. Non voglio tediare con discorsi da vecchio: l’eventuale lettore mi giustifichi, quando sbotto gridando che Giacomo Matteotti assimilato allo squallore saragattiano mi fa andar via di testa, come accadeva al mio nobile nonno del resto. La durezza dei tempi odierni, e di quelli che si profilano, impongono di essere più solerti nel contrastare l’uso strumentale della figura di di Giacomo Matteotti da parte di chi mise in opera nel secondo dopoguerra squallide congiure contro il movimento socialista, come di chi a costoro in seguito si ispirò.
Restando sulle sensazioni individuali destate in me dalla trasferta a Fratta, una si è imposta con forza. Pur sapendo che Giacomo Matteotti proveniva dalla borghesia, non avevo mai saputo che fosse di famiglia decisamente ricca, figlio di padroni insomma (sia pure padroni, diciamo, illuminati). La cosa mi ha dato di che riflettere: tornando indietro con la mente alle citate conversazioni udite da ragazzino, prendo atto che mai, in nessun momento, ciò fosse stato richiamato da alcuno, o gli venisse rimproverato: ecco, questo totale fare corpo di una generazione contadina povera, avviata al tramonto della propria vita, con un leader morto da decenni proveniente dal mondo degli abbienti è una cosa che capita raramente (nemo propheta in patria, non a caso), una indicazione indiretta ma forte della sua qualità non solo di leader politico[3].
2. Ricostruendo una figura manipolata e stravolta
Venendo a un discorso più serio: in che senso è riformista, è gradualista, Matteotti? In che senso dunque sarebbe un moderato incline al compromesso, a differenza e in contrapposizione a massimalisti e comunisti? Premetto: ci sono compromessi che vanno perseguiti, e realizzati; la svolta di Salerno del ’44 ne è chiaro esempio, che ha comportato ingiustizie, ma ha comunque permesso l’uscita dalla guerra con la nascita dell’Italia democratica[4].
Allora, lasciamo parlare Matteotti contro la guerra. Scopriamo che il suo neutralismo è tutt’altro che imbelle, si collega addirittura alle posizioni di Karl Liebknecht, co-fondatore di lì a qualche anno della Lega di Spartaco (con Rosa Luxembourg), unico deputato socialdemocratico tedesco a non aver votato i crediti di guerra “Carlo Liebknecht – scrive Matteotti – non ha temuto il fucile ed il capestro prussiano, temeranno i socialisti d’Italia e del Polesine, i fucili ed i capestri nostrani per non rivendicare l’unione dei lavoratori contro tutte lee guerre, per tutte le libertà?”.[5] Matteotti polemizza assai duramente contro i sindaci del Polesine della sua stessa corrente (socialista riformista) che presentano ambigue simpatie interventiste filo-mussoliniane[6]. Nei primi mesi del 1915, di fronte all’atteggiamento di semi-capitolazione delle amministrazioni pubbliche social-riformiste in particolare del Polesine, scrive vari articoli critici dal tono sferzante[7], giungendo a più riprese a caldeggiare una azione da parte della maggioranza (massimalista) del partito socialista, azione volta a provocare uno sciopero generale; parla esplicitamente di insurrezione popolare contro la guerra. A battaglia politica perduta denuncia, oltre all’ubriacatura nazionalista, la debolezza e le ambiguità della linea politica neutralista solo a parole sostenuta dal partito, si lamenta di non essere riusciti (il partito ma anche lui personalmente) a stimolare il proletariato italiano a ribellarsi[8]. Chiedo allora: in che cosa questo Matteotti sarebbe un moderato, gradualista, anticipatore addirittura del c.d. socialismo democratico (quello sovvenzionato dagli USA) del secondo dopoguerra? Matteotti è il più strenuo difensore del neutralismo assoluto, contro ex socialisti (Mussolini) e attuali socialisti deboli o complici (i suoi compagni di corrente) o, semplicemente, parolai vuoti (i massimalisti, Serrati in testa)[9]. Lo fa con tale determinazione che al momento decisivo, come abbiamo visto, arriva a scavalcare la corrente moderata che lui stesso guidava in Polesine, per proporre un piano unitario alla direzione nazionale del partito, politicamente più radicale (purtroppo, ripeto, solo a parole), piano che prevede la proclamazione dello sciopero generale, in una prospettiva che giunge a contemplare l’ipotesi insurrezionale[10].
Spostiamo l’attenzione sul dopoguerra: che cosa è la posizione politica del Matteotti segretario del PSU negli anni dell’ascesa del fascismo se non la proposta alle altre forze politiche – socialisti e popolari in particolare – di un “compromesso storico” (vero, giustificato, non la grottesca parodia di 50 anni dopo) in funzione antifascista? Una proposta pregna del senso della tragedia incombente che solo lui riesce a cogliere. Più chiaramente, anche se con i se si fa fantapolitica, rischiando di mettersi sul terreno pericoloso della distopia: se fosse stato ucciso un altro leader dell’antifascismo, e ci fosse stato l’Aventino, dubita qualcuno che Matteotti avrebbe dato un apporto decisivo per trasformare il movimento di protesta in sciopero generale, come era necessario, ma non si riuscì a fare per molti motivi, in particolare per l’inconsistenza del ceto politico chiamato a quella scelta[11]?
3. Significato (oltre che limiti) del ritorno su determinate figure oggi
Lasciando volentieri eventuali approfondimenti di queste piste alla ricerca storica, devo indicare perché in queste vicende tanto risalenti trovo con angoscia, avvinte in modo inestricabile, la presenza di tematiche assolutamente contemporanee, insieme con la nitida evidenza di una assenza esiziale. A sorpresa il viaggio alla Fratta mi chiarifica definitivamente alcuni passaggi, anche se non ne indica possibili esiti.
Il punto è questo: proprio i più bravi tra i compagni di quella generazione, al di là delle scelte politiche tra loro diverse e anche duramente contrastanti che operarono, erano condannati in partenza dalla non comprensione di quanto avveniva: incomprensione profonda, strategica intendo, del capitalismo globale, della sua natura. Ci portiamo dietro dai maestri fondatori (quelli che ci guardano barbuti in effigi del XIX secolo) l’opinione fuorviante che l’accumulazione capitalistica originaria sia avvenuta una volta per tutte, agli albori della modernità, tra Inghilterra e Paesi dell’Europa occidentale. Tale convinzione giustificava (apparentemente) la strategia politica della seconda internazionale: guidare la classe operaia d’occidente, attraverso una serie di lotte rivendicative vittoriose, fino a costringere il capitalismo ad abbassare la quota di estrazione del plusvalore assoluto a favore dell’incremento del plusvalore relativo. Donde, nel tempo, l’inevitabile collasso del sistema. Io li guardo da lontano con ammirazione, Matteotti e gli altri. Ma sono tutti tragici prigionieri di una chimera[12].
E’ subito evidente, intanto, il prezzo avvilente pagato dal movimento operaio d’occidente: in questo schema il proletariato schiavizzato o semi-schiavizzato (qualche volta anche de jure, non solo de facto) delle periferie del sistema-mondo non ha voce, né ruolo, né anima; ai fini della liberazione, le sue condizioni saranno migliorate gradualmente dall’azione del movimento operaio dei paesi più sviluppati (o dalle avanguardie terzointernazionaliste), ma non è mai percepito come un autentico soggetto. Ciò spiega la diffusa indifferenza nei movimenti socialisti tra fine del XIX e prima metà del XX secolo, verso gli orrori perpetrati dal colonialismo, indifferenza destinata a trasformarsi in complicità aperta al momento della decolonizzazione, in nome ben s’intende della lotta al comunismo. La chimera, l’illusione si trasformano in odioso tradimento, inaudito opportunismo: è come se i partiti socialisti votassero per la seconda volta, nel secolo, i crediti di guerra all’imperialismo.
Le vicende del secondo dopoguerra, l’impetuoso esplodere dell’anticolonialismo, il ’68, solo raramente mettono in discussione la premessa, intuiscono la ripresentazione ciclica del momento dell’accumulazione originaria; spetterà tra gli anni ’60 e ’70 al movimento delle donne cominciare a farlo[13]. Resta che solo con la constatazione dell’avvenuta sussunzione reale, e dell’estendersi della rete dei bio-poteri capitalisti a coprire, oltre al complesso della società umana, l’intera sfera del vivente, si impone una verità drammatica. L’accumulazione originaria è in realtà “un processo inesauribile e ricorrente, essenziale alla continuità della vita del capitalismo”[14]. In termini convergenti si esprimono Negri ed Hardt, insistendo sul fatto che rapporti di produzione capitalistici e relative classi sociali “devono essere riprodotti senza sosta”, donde la corretta conclusione che “l’accumulazione originaria non può accadere una volta sola”.
La novità di questa epoca, di questo capitalismo sta dunque non tanto nel riproporsi dell’accumulazione originaria, quanto nel fatto che tale puntuale riproporsi pervade la sfera intera del vivente. Soffermiamoci su un esempio attuale, sfuggito ai più: l’utilizzo capitalistico delle epidemie della mucca pazza ed aviaria. I bio-poteri globali sono riusciti a trasformare epidemie provocata da una molteplicità di fattori – in primis, nel caso della mucca pazza, il cannibalismo imposto alle mucche degli allevamenti – in malattie aventi origine nel sud-est asiatico (Cina meridionale ma non solo) essenzialmente per scarsità di igiene. Quest’ultima sarebbe in particolare la causa della trasmissione dell’aviaria all’uomo. Ciò ha consentito di porre sotto attacco, in tutto il mondo, le forme residuali di sussistenza domestica (pollame di casa), con la pretesa ultimativa rivolta ai propri piccoli allevatori da parte dei governi dei Paesi sotto ricatto (delle multinazionali, di determinate istituzioni internazionali, OMS in testa, degli Stati leader dell’agro-industria) di eliminare, anche tramite macellazione preventiva, il pollame allevato al di fuori delle strutture industriali. Centinaia di milioni di agro-allevatori di sussistenza sono così stati portati alla rovina in pochissimi anni, nel generale silenzio[15]. La ricostruzione ci consente di comprendere, meglio di ogni complessa analisi teorica, come la stessa speculazione pandemica abbia funzionato da occasione per un nuovo, particolarmente virulento capitolo di accumulazione originaria, che ha separato i piccoli produttori dai propri animali e quindi dalle proprie fonti di sussistenza, rendendoli dipendenti da un’economia globalizzata, in prospettiva nuova materia prima per prossimi flussi migratori. Questa accumulazione originaria, notiamo, va oltre la privatizzazione e reclusione degli animali in quanto fonte di cibo: essa implica la rottura “di relazioni e rapporti nati dalla convivenza quotidiana di uomini e animali, la loro segregazione in popolazioni separate che vivono e muoiono per il capitale astratto”, piuttosto che in un rapporto di relazione reciproca[16].
Per concludere, e ristabilire il legame con i discorsi precedenti: fatto salvo il rigore nella battaglia contro la guerra, e contro il fascismo, non c’è in effetti molto altro che ci possiamo portare dietro dalla Fratta. Resta però che oggi, anche per noi, il no assoluto alla guerra e l’antifascismo senza tentennamenti sono (tornano ad essere?) aspetti necessari quanto decisivi, non solo ai fini della lotta politica, quanto proprio nel modo di essere e nel vivere quotidiano. In questo senso costituiscono allora un lascito tutt’altro che secondario da parte di quei protagonisti, Giacomo Matteotti in testa. Riusciamo a conquistare la percezione che essi camminano al nostro fianco?
Pure bisogna prendere atto, nel contempo, di una grande differenza: i protagonisti di quella stagione, tutti, nutrivano l’illusione di essere, per strade diverse, arrivati vicini al “cuore di tenebra” del mostro, e ciò li aiutava nella lotta, li rafforzava nella sofferenza. Noi invece, immersi nella tenebra della sussunzione reale, abbiamo a differenza di loro la dura consapevolezza del nostro attuale stato Partiamo in svantaggio insomma, le soluzioni possibili sono di là dal dispiegarsi. Siamo sicuri solo di una cosa, che la fine per auto-sfinimento del capitalismo non è nel novero di tali soluzioni. Insomma: tenere stretti riferimenti e modelli virtuosi di comportamento, anche perché solo quelli ci restano, ma bisognerà poi andare oltre, ben oltre.
* Già professore di diritto internazionale e di diritto UE, co-fondatore del Centro Studi sui diritti umani dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Attualmente la sua ricerca scientifica si concentra sui profili giuridici della protezione del patrimonio e delle identità culturali (da parte di comunità, gruppi, minoranze) in situazioni di conflitto armato e di altre emergenze. Partecipe dei movimenti c.d. operaisti dai primi anni ’60, esponente poi del gruppo Potere Operaio e delle esperienze che vi fecero seguito, è stato a suo tempo coinvolto nell’operazione c.d. 7 aprile, e nel processo che vi ha fatto seguito.
[1] Nell’interesse di chi avrebbe avuto luogo una simile operazione politica, brillantemente smascherata dai solerti coltivatori di garofani? Nell’interesse del pd, parrebbe verosimile. Una tale accusa agli organizzatori di Ecopark, diciamocelo, non l’aveva ancora rivolta nessuno.
[2] Figura, quella di Nenni, che nel drammatico tumulto delle fasi che ha vissuto e delle operazioni politiche che ha concluso o tentato, meriterebbe – mi permetto di suggerirlo ai fiorai di cui sopra, ma non solo a loro – maggior rispetto.
[3] Nella casa-Museo ho trovato una traccia visibile di questo: l’insulto volgare al “socialista impellicciato” in un articolo de il Popolo mi pare del 1915.
[4] A proposito, compromessi sono quelli che si fanno con gli avversari. L’importante è non dimenticare che esiste una linea di demarcazione non superabile, oltre la quale il compromesso si rivela dissoluzione, autocancellazione dell’identità, morte. Di recente è invalsa la moda degli accordi di pace tra alleati. Orbene, in questo caso si tratta di piani di spartizione mascherati, come è successo di recente con i piani di pace per il dopoguerra in Ucraina tra SU, UE e governo Zelenski. La pretesa di quest’ultimo attore di aver la Crimea appare, in tale ottica, tutt’altro che folle. Sta dicendo ai compagni di merenda: poiché il terreno di battaglia, i morti civili, le distruzioni, necessarie a preparazione e messa in funzione della trappola gigante li abbiamo messi noi, sia chiaro che la Crimea sarà nostra come risarcimento. Ha senso, certo, ma è un piano di spartizione per un dopoguerra vittorioso (mah!), non un piano di pace.
[5] Dobbiamo al libro di Paolo De Marchi, La retorica della guerra nell’anno della neutralità dalle pagine de Il Gazzettino, CESP, Padova, 2019, informazioni precise, condite da pagine di commento finalmente adeguato sull’argomento. La citazione richiamata riguarda (p. 91) l’articolo scritto da Matteotti per La Lotta il 12 dicembre 1914.
[6] Il sindaco socialista di Stienta, Enrico Ferrarese, è tra questi.
[7] Ospitati nell’organo nazionale della corrente riformista, Critica sociale.
[8] Articolo pubblicato su La Lotta, 21 maggio 1915, commentato in De Marchi, cit., pp. 91-92,
[9] Arriva a posizioni di vera e propria rottura con Turati, con cui peraltro la ricomposizione nel dopoguerra sarà politicamente obbligata; quel Turati il cui rifiuto allo sciopero generale dopo l’assassinio di Matteotti risulterà decisivo per garantire l’assunzione del pieno controllo della situazione da parte fascista. Davvero, Turati ha operato post-mortem (di Matteotti) una vera e propria campagna di stravolgimento e re-interpretazione della memoria del leader ucciso, non solo scorretta, ma soprattutto pregiudizievole per quella memoria stessa. Donde l’opportunità, ma soprattutto la necessità, di ricostruire correttamente quella figura.
[10] La sua è anche una posizione radicalmente distante, questo è certo, da quella di Bordiga e Gramsci; si tratta della corrente che – insieme ad altre minoranze socialiste di estrema sinistra in Europa – si collegherà negli anni successivi alla parola d’ordine leninista del cogliere l’occasione offerta dalla guerra per trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria. Questa posizione, espressa dal giovane Gramsci su L’Avanti del 31 ottobre 1914 nell’articolo intitolato Neutralità attiva ed operante, esaltata più avanti dal neonato pci come atto teorico fondante di un nuovo corso rivoluzionario, contiene certo alcune intuizioni di pregio. Resta che per il momento in cui uscì – quando si poteva ancora fermare la guerra – apparve a molti, certamente anche a Matteotti, come una pugnalata alle spalle di chi conduceva una rigorosa battaglia neutralista. In un certo senso, dobbiamo dirlo fuori dai denti, lo era.
[11] Inconsistenza, viltà, ai limiti della complicità. La lettura del recente volume curato da Davide Grippa Contro ogni forma di violenza, che riporta i discorsi e gli interventi parlamentari svolti da Giacomo Matteotti dopo l’elezione a deputato nazionale (Einaudi, Torino, 2024) ci mostra una Camera dei deputati, nel 1921, molto più interessata a far pagare ai socialisti l’anno dell’occupazione delle fabbriche giustificando – talora anche esplicitamente da parte di esponenti popolari – la violenza fascista, nella convinzione di poterla poi far rientrare.
[12] Ivi compresi i comunisti del periodo rivoluzionario, che sostenendo apertamente la necessità della conquista del potere politico come atto prodromico alla trasformazione sociale, ritengono a torto di avere la carta vincente. Anche la terza internazionale rimane al di qua della comprensione della natura del capitalismo, della sua capacità di trasformazione, delle sue forme mimetiche. Si arriverà così a chiamare con il nome di socialismo, interno addirittura al processo di formazione della società comunista, una manifestazione, tra l’altro poco efficiente, di capitalismo di Stato. Su quest’ultimo profilo, già dagli anni ’60 i testi della Di Leo forniscono chiavi di lettura adeguate, di straordinaria attualità.
[13] Anche l’operaismo (non solo italiano) dell’epoca dà validi, anche se non decisivi, contributi: ricordo scritti e discorsi di Bianchini, di Tronti (il capitalismo è sempre guerra e distruzione “tutto ciò che è ragionevole gli è estraneo”); c’è poi uno scritto molto bello di Lucio Castellano nei ‘70, che afferma come il capitalismo comporti sempre e necessariamente estrazione di plusvalore assoluto: se le lotte operaie nei Paesi più sviluppati costringono talora il capitale ad accrescere la quota di estrazione del plusvalore relativo nella fabbrica metropolitana, a questo corrisponderà non solo il mantenimento ma pure l’incremento dell’estrazione del plusvalore assoluto da altre parti. Anche se non mi pare che usi il termine neo-colonialismo, Lucio era già assai oltre l’entusiasmo illusorio della decolonizzazione.
[14] Iain Boat et al., Afflicted Powers. Capital and Spectacle in a New Age of War, Verso, London, 2005 (p.75). Ripreso e discusso in Nicole Shukin, Capitale animale, Tamu, Napoli, 2023, p. 354.
[15] Vincent Lam e Colin Lee, The Pandemic Flu and You: A Canadian Guide, Doubleday Canada, Toronto, 2006.
[16] Nicole Shukin, cit., p. 355. Come vegetariano convinto non posso certo riconoscermi nella parte conclusiva, non poco ambigua, dell’affermazione, ma il ragionamento è utilissimo a capire dove siamo arrivati, e dove vadano cercate le forme di riproduzione dell’accumulazione originaria nella sussunzione reale.