Si parla molto, soprattutto nelle analisi femministe, di patriarcato. Ma che cosa si intende con questo termine? Quando si è imposto come modello di organizzazione sociale? Quali sono le sue caratteristiche contemporanee? A cura di Carla Manfrin
In sociologia e antropologia, il patriarcato è un sistema sociale in cui gli uomini detengono principalmente il potere e ricoprono in modo preponderante ruoli di leadership politica, autorità morale e religiosa, privilegio sociale e controllo della proprietà privata. Se spostiamo l’osservazione all’interno famiglia, si parla di patriarcato quando il padre o la figura paterna esercita la propria autorità sulla donna e i figli. Alcune società patriarcali sono (o sono state) anche patrilineari, cioè i beni familiari e il titolo sono ereditati dalla prole maschile.
In tempi moderni, il termine patriarcato si riferisce più generalmente al sistema sociale in cui il potere è prevalentemente detenuto da uomini adulti sia nella sfera pubblica che in quella privata.
Tradizionalmente, il patriarcato ha dato al padre di famiglia completo possesso della moglie e dei figli, così come il diritto di abuso fisico e psicologico e se, in alcuni luoghi del mondo, questo non è più riconosciuto dalla legge è comunque rimasto nella mentalità. La divisione del lavoro all’interno di una società patriarcale genera una scala sociale in cui la scelta degli uomini di realizzarsi al di fuori dell’ambiente domestico e assumere il controllo sulle donne è vista come la norma. Il patriarcato, come privilegio e autorità maschile che afferma una concezione della donna come proprietà, finisce per portare a una “cultura dello stupro” in cui lo stupro e altre forme di violenza verso le donne sono riconosciute come la norma, o quantomeno accettate, all’interno dell’ordine sociale.
Ma per lunghi millenni non è stato così.
Prove antropologiche e archeologiche suggeriscono che la maggior parte delle società preistoriche nomadi fossero relativamente egalitarie e che strutture sociali patriarcali si siano sviluppate solo molti secoli dopo la fine del Pleistocene, in seguito ad avanzamenti sociali e tecnologici come l’agricoltura, l’addomesticazione di animali e la lavorazione dei metalli.
Quando la società non era divisa in classi e la proprietà non esisteva, non esisteva nemmeno la differenza di valore tra vari lavori: gli uomini di solito si dedicavano alla caccia, mentre la coltivazione, l’artigianato, la cura e la responsabilità dell’accampamento erano compiti delle donne.
In questo campo di ricerca Riane Eisler ha offerto contributi importarti, sistematizzati nel suo testo più famoso, Il calice e la spada. È una storica della cultura, una “metastorica”, una teorica dei modelli evolutivi umani, una studiosa di antropologia, è considerata la miglior erede di Marija Gimbutas da cui ha tratto il concetto di gilania (dal greco gyné = donna + lyein/lyo = liberare) a cui ha contrapposto quello di androcrazia (dal greco anér, andròs = uomo + kratòs = governo); in quest’ultimo ha identificato le società caratterizzate da autoritarismo e violenza.
Gimbutas ed Eisler hanno condotto le loro ricerche in vaste zone dell’Eurasia e del Medioriente e, tenendo conto che i simboli raramente sono astratti o fine a sé stessi e nessun simbolo può essere trattato isolatamente, hanno lavorato in una prospettiva interdisciplinare, la sola in grado di identificare tutti gli antichi modelli europei e medio-orientali che sembrano stare alla base di un sistema ideologico unitario e persistente. Questo sistema si può descrivere come una cultura gilanica, ossia una cultura né patriarcale né matriarcale basata su rapporti collaborativi, agricola, pacifica, con una religione naturalistica basata sul culto di una Dea Madre, della Terra e di tutti gli esseri viventi.
Mentre le culture europee trascorrevano un’esistenza pacifica e raggiungevano una fioritura artistica e architettonica altamente sofisticate, nel V millennio a.C. una cultura neolitica assai diversa, in cui si addomesticava il cavallo e si producevano armi, emergeva nel bacino del Volga, nella Russia e nell’area del Mar Nero. Questa nuova forza cambiò il corso della preistoria europea.
Questa cultura detta Kurgan (dal russo tumulo, tomba in cui venivano seppelliti i re-guerrieri) ha queste caratteristiche fondamentali: nascita nel VII e VI millennio a.C., agricoltura su scala ridotta, allevamento, addomesticamento del cavallo, posizione preminente del cavallo nel culto, fabbricazione di armi quali arco, freccia, daga, lancia, patriarcato, patrilinearità. Elementi distintivi che si oppongono alla cultura gilanica precedentemente diffusa.
Nuove tecnologie legate all’agricoltura e alla produzione delle armi determinarono, quindi, un salto di paradigma nell’organizzazione sociale. Le ripetute incursioni dei protoindoeuropei Kurgan misero fine all’antica cultura europea e mediterranea all’incirca tra il 4300 e il 2800 a.C., trasformandola da gilanica in androcratica e da matrilineare in patrilineare.
Le regioni dell’Egeo e del Mediterraneo riuscirono a mantenere l’antica cultura pacifica fino al 1500 a.C., la religione della Dea e i suoi simboli sopravvissero, come una corrente sotterranea, in molte aree geografiche. In realtà, molti di questi simboli sono ancora presenti come immagini nella nostra arte e letteratura, motivi di grande suggestione nei nostri miti e negli archetipi dei nostri sogni.
Eisler propone una nuova teoria dell’evoluzione culturale, interpretando il corso della storia alla luce dei due modelli organizzativi di cui abbiamo trattato: quello androcratico, come abbiamo già considerato violento e autoritario (simboleggiato dalla spada), e quello ginocentrico, fondato sulla collaborazione e la parità tra i sessi (simboleggiato dal calice).
Con un’attenzione specifica al ruolo femminile, questo saggio ripercorre la storia della specie umana dal Paleolitico a oggi, dimostrando che la guerra tra gli uomini e tra i sessi non è determinata divinamente o biologicamente e ricercando in quel passato ideale gli strumenti per costruire un futuro vivibile.
Eisler fonda gran parte della sua ricerca sulla civiltà cretese cominciata intorno al 6.000 a.C. quando arrivarono sulle spiagge dell’isola gruppi probabilmente provenienti dalla Anatolia. Portavano con sé il culto della Dea e una tecnologia che li colloca nel Neolitico.
Secondo la quasi totalità degli archeologi e degli storici dell’arte antica, la cultura e l’arte cretese si differenziano molto da quelle delle altre civiltà del tempo, per esempio in Egitto e a Babilonia, per i loro caratteri unici di inno alla gioia e alla vita, all’armonia con la natura e tra uomini e donne.
Una società sostanzialmente pacifica, non violenta, non dominatrice: per lunghissimo tempo e certamente nel lungo periodo più antico (periodo minoico) le città-stato sul mare non hanno avuto fortificazioni, né vi sono tracce che abbiano combattuto tra loro o che abbiano intrapreso guerre di conquista; anche le ville sul mare erano completamente sguarnite di forme di difesa. Le molteplici forme d’arte non raffigurano scene di battaglie, di caccia o di condottieri vittoriosi, né uomini che rappresentano il potere della vittoria e della conquista. L’idea di un re guerriero che trionfa, umiliando e uccidendo, è completamente assente. Per queste ragioni quasi tutti gli esperti sostengono che quella minoica è stata sostanzialmente una società pacifica, dove per oltre 1500 anni è regnata la pace, interna ed esterna all’isola, in un’epoca di guerre incessanti in tutta l’area mediterranea. Sembra corretto concludere che l’assenza di una concezione del potere basato sulla violenza e sul dominio è una delle fondamentali ragioni della lunga pace che i cretesi hanno potuto vivere.
Un’altra caratteristica significativa della società cretese, che la distingue nettamente dalle altre civiltà antiche, è la ripartizione abbastanza equa della ricchezza, molto più equa di quanto si sia verificato altrove, basti pensare al divario immenso che c’era tra i potenti e i poveri in Egitto o a Babilonia: le entrate governative furono destinate alla realizzazione di opere che oggi giudicheremmo “moderne”, come sistemi di approvvigionamento dell’acqua, di condutture idriche, di latrine domestiche in quasi tutte le abitazioni e poi strade, ricoveri e opere pubbliche i cui vantaggi erano fruibili da tutti.
Nella cultura minoica le donne avevano un ruolo molto importante in ogni ambito della sfera pubblica e religiosa. Sono raffigurate spesso in posizione centrale sia negli affreschi dei palazzi che in molte rappresentazioni artistiche, accanto alle immagini della Dea come sacerdotesse.
Vi era probabilmente una forma di discendenza matrilineare, ma non si sviluppò alcuna forma di matriarcato (il dominio delle donne sugli uomini, come il patriarcato è il dominio degli uomini sulle donne); sostanzialmente nella società cretese non era ideologizzato il criterio del dominio dell’uno sull’altro, vi era piuttosto un modello mutuale, di reciproco riconoscimento, sostegno e collaborazione.
Le cose cambiarono circa 5000 anni fa. Il dominio maschile sulle donne è stato attestato nell’antico Vicino Oriente fin dal 3100 a.C., così come le restrizioni sulla loro capacità riproduttiva e l’esclusione dal processo di rappresentanza o dalla costruzione della storia.
Le donne si ribellarono a questo ordine e lottarono. Miti e leggende ci raccontano di questa resistenza e della loro sconfitta e le Amazzoni, che da esseri umani divennero schiave e mogli, ne sono il simbolo.
L’ordine simbolico patriarcale, all’interno della famiglia – struttura base della società patriarcale – venne trasmesso ai bambini e alle bambine che lo interiorizzano crescendo e il ciclo del patriarcato ha così continuato a prosperare ben oltre l’Antica Grecia….
Leggi precise provvidero a che le donne (e i figli e le figlie) fossero escluse dalle decisioni sull’attività economica, dall’istruzione, dalla politica.
Che cosa era successo? Che cosa si è innestato nello sviluppo della tecnologia delle armi e all’uso del cavallo portati dalla civiltà Kurgan? Come mai dopo almeno 250 mila anni dalla comparsa della specie sapiens sapiens sulla terra, circa 5000 anni fa il modello gilanico venne soppiantato stabilmente da quello androcratico con la piena affermazione del patriarcato?
Ci fu la rivoluzione agricola che le stesse donne avevano preparato. Quando l’uomo divenne agricoltore cominciò anche a diventare proprietario. La terra non fu più uno strumento del suo lavoro, un mezzo per vivere, ma divenne fonte di potere e di ricchezza. Per una donna, che i figli li avesse concepiti con Tizio, con Caio o con Sempronio poco cambiava: quei figli erano certamente la sua discendenza e a tutti avrebbe provveduto. Ma per un uomo era diverso: perché la proprietà della terra rimanesse alla propria discendenza doveva essere certo che i figli fossero veramente “suoi” e l’unico modo che gli consentiva questa certezza era quello di avere il controllo sul corpo della donna, era che anche a livello formale ella fosse considerata di sua proprietà.
Impossibile ripercorrere qui le varie forme assunte dal patriarcato nelle diverse epoche e nelle diverse culture. È possibile solo tracciare le linee di massima del suo sviluppo in epoca moderna e contemporanea.
Già Engels in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato aveva analizzato la stretta interrelazione tra queste forme dell’organizzazione sociale umana. Secondo la teoria marxista il patriarcato è nato a causa di una primitiva divisione del lavoro; conseguentemente allo sviluppo del capitalismo, il regno della produzione è stato monetizzato e stimato maggiormente rispetto al regno della casa, che non è mai stato monetizzato, e la percezione e il potere degli uomini sarebbero cambiati di conseguenza.
Carole Pateman, docente di Scienze politiche presso l’università di Los Angeles, nel saggio Il contratto sessuale individua i fondamenti nascosti della società moderna e i passaggi strategici che il patriarcato ha compiuto per imporsi come paradigma dominante.
Pateman spiega come i pensatori politici dal XVII secolo in poi partono dall’assunto che non ci siano, in natura, forme di soggezione, che tutti gli uomini nascano liberi ed uguali e che decidano spontaneamente di sottomettersi a un potere superiore da essi artificialmente creato: una risposta alla necessità di concepire l’ordine politico basato sul consenso invece che su forme di subordinazione determinate dal diritto divino del sovrano o dall’antichità di una tradizione. Fu definito “contratto sociale”, un contratto derivato, quindi, da un’origine razionale e consensuale nella convinzione che lo stato di natura impedisce una convivenza pacifica fra soggetti liberi ed uguali.
Pateman sottolinea come però tutto quello che riguarda la relazione tra i sessi è lasciato ai margini della narrazione contrattualistica a partire dal presupposto che il diritto degli uomini sulle donne si fondi su una base naturale che vede la naturale destinazione delle donne alla sfera domestica, privata e che le esclude dall’ambito civile e pubblico della politica.
Se nella sfera pubblica (maschile) si afferma il contratto sociale secondo il quale i rapporti tra i contraenti sono liberi, nella sfera privata vige il contratto sessuale che sancisce la sottomissione delle donne.
Pateman chiama questo contratto originario “contratto sessuale”, quello che è comunemente identificato come contratto di matrimonio. Ma questo contratto non avviene tra “pari”, non ci sono l’uguaglianza e la libertà presupposte nel contratto sociale; è un contratto che si basa su una presupposta “natura” femminile predisposta alla sottomissione, alla necessità di guida maschile, alla cura dei figli e della casa.
Criticando la pretesa che la narrazione contrattualista sia una storia universale di libertà, Pateman mette in luce come – prima, sottotraccia e sempre rimosso – venga il contratto sessuale con tutte le sue implicazioni conseguenti alla separazione netta tra sfera pubblica e sfera privata.
La pretesa moderna di aver razionalizzato i rapporti umani, destituendo il patriarcato classico, quello per cui il potere del sovrano è simile a quello del padre e quindi dispotico, rivela tutta la sua parzialità: infatti, nella modernità i soggetti maschili che si liberano dell’autorità ‘paterna’ mantengono però, di quella stessa autorità, l’aspetto cruciale del controllo e dell’uso del corpo delle donne. “La libertà civile non è universale, bensì un attributo maschile, e dipende dal diritto patriarcale. I figli non rovesciano la legge patriarcale soltanto per conquistare la propria libertà, ma per assicurarsi il possesso delle donne”.
Pateman insiste sulla necessità di rendere esplicito il contratto sessuale per poterne decostruire la valenza prescrittiva e per poter ragionare correttamente anche in contesti contemporanei di apparente uguaglianza tra uomini e donne quando il contratto sessuale si ripropone nella forma, ad esempio, del contratto di prostituzione o di maternità surrogata. In entrambi questi casi sembra si cerchi di “normalizzare” quello che Adrienne Rich chiama “il diritto sessuale maschile” e il suo primato su quello femminile accostando l’uso del corpo delle donne – sia nel sesso sia nella gravidanza – ad una neutrale vendita di forza lavoro.
Non solo: la rimozione dell’esistenza del contratto sessuale potrebbe spiegare molto altro sul diritto sessuale maschile e sull’uso del corpo delle donne “nelle relazioni sessuali in generale è ancora molto forte la credenza che le donne dicano “no” intendendo “sì”, e i dati empirici sullo stupro e sul modo in cui i casi di stupro sono trattati nei tribunali mostrano che purtroppo c’è una diffusa incapacità di comprendere che cosa significhi rapporto consensuale; troppo spesso la sottomissione forzata o involontaria viene considerata consenso”, ribadisce Pateman.
Come abbiamo avuto modo di considerare, il patriarcato è legato non solo al sessismo esercitato individualmente ma anche al controllo istituzionalizzato. Strutture di discriminazione e oppressione patriarcale hanno stabilito storicamente il privilegio maschile negando alle donne il diritto alla partecipazione politica, in tal modo diminuendo se non eliminando completamente la loro opportunità di contribuire alla regolazione delle circostanze della loro vita e della società.
Dobbiamo imparare ad assumere uno sguardo che ci consenta di decodificare il sistema materiale e simbolico patriarcale che nel corso dei millenni ha permeato di sé tutto.
Carole Pateman ci invita a non rimuovere ancora ma a tener in conto con lucidità e lungimiranza il contratto sessuale: “Una volta che questa storia sia stata raccontata, è disponibile una nuova prospettiva da cui valutare le possibilità politiche e giudicare se questo o quel percorso aiuteranno o ostacoleranno la creazione di una società libera, e la creazione della differenza sessuale come una delle espressioni della libertà. Per giungere alla democrazia, al socialismo e alla libertà, è necessario tracciare nuove strade antipatriarcali”.
Se riusciremo a non rimuovere ancora il contratto sessuale, che sia tornato il tempo per lavorare alla costruzione di una società gilanica e non solo di apparente e formale uguaglianza?
Le immagini sono tratte principalmente da https://www.civiltaeterne.it/
A questo indirizzo https://femminileplurale.wordpress.com/2013/04/01/gallery-del-patriarcato-pubblicata/ una galleria di immagini su vari aspetti del patriarcato