La cultura dello stupro – aggiornamento

“Cultura dello stupro” è un’espressione utilizzata dagli studi di genere e dai femminismi per descrivere una “cultura” nella quale non solo la violenza e gli abusi di genere sono molto diffusi, minimizzati e normalizzati, ma dove sono normalizzati e incoraggiati anche gli atteggiamenti e le pratiche che giustificano e sostengono quella violenza e che pretendono di avere il controllo sulla sessualità femminile. A cura di Carla Manfrin

Ho sentito la necessità di riprendere un articolo sulla cultura dello stupro, che avevo pubblicato su PadovanaBassa nel settembre del 2021, perché da allora poco è cambiato e ne è un triste esempio la gestione che l’onorevole padre e la stampa amica hanno dato del caso che vede coinvolto Leonardo Apache La Russa.

Anche due anni fa le riflessioni erano partite da una denuncia per stupro di una giovane donna nei confronti di tre maschi di cui uno figlio di un noto politico, Grillo, che aveva poi diffuso in un video il suo ‘pensiero’ sull’accaduto che scagionava il branco e trasformava la ragazza in quella che ‘se l’era cercata’; nello stesso modo ora, papà La Russa scagiona il proprio figlio dopo averlo ‘interrogato’ nel salotto di casa e dopo aver avuto da lui rassicurazioni sul suo corretto comportamento, insinuando dubbi sulla giovane donna. Senza entrare nel merito delle vicende, quella di Grillo figlio non ancora conclusa e quella di La Russa figlio appena iniziata, qui prese ad esempio per il clamore dovuto al cognome e al ruolo politico dei protagonisti, balza agli occhi che quello che si ripete è che entrambi i padri hanno denigrato la ragazza e hanno sminuito la sua accusa perché la denuncia non è avvenuta immediatamente dopo i fatti.

Certo, bisogna praticare il principio del dubbio sulle accuse prima della sentenza in giudicato, ma bisogna anche tenere bene a mente che denunciare è molto faticoso per una donna e che se lo fa, esponendosi spesso al linciaggio mediatico o alle ritorsioni del cerchio dell’interessato, lo fa perché è successo qualcosa che ne ha ferito il corpo e l’anima.

 Con il femminismo abbiamo imparato che la violenza sessuale non ha niente a che vedere con il sesso, riguarda il potere.  

“Sono le ragazze con meno di 16 anni a subire maggiormente le violenze sessuali: sono il 53,4% delle denunce di stupro. È quanto sottolinea l’Istat in un’indagine in collaborazione con il Dipartimento per le Pari Opportunità sull’attività dei Centri Antiviolenza.  

Particolarmente critica la situazione delle donne più giovani: il 31,5% delle ragazze con meno di 16 anni ha temuto per la propria vita e oltre un quarto (26,7%) si è recato al Pronto soccorso. Inoltre, il 46% delle donne con meno di 16 anni è ad altissimo rischio.

Le violenze contro le ragazze sono nascoste e quasi sempre compiute da uomini che conoscono, i contesti in cui avvengono queste violenze sono proprio quelli in cui dovrebbero sentirsi più sicure: la casa e la famiglia, la scuola, la comunità di appartenenza. Hanno un significato ben preciso: quello di educare alla sottomissione. Attraverso lo stupro o la minaccia di stupro, le ragazze vengono educate al ruolo da ricoprire come future donne, vengono educate all’obbedienza, vengono educate ad amare l’uomo violento accanto a loro”. https://www.rainews.it/articoli/2022/11/istat-le-forme-di-violenza-pi-gravi-sono-sulle-ragazze–231a38c5-a90a-4055-922a-72accd4b647d.html

    Con il femminismo abbiamo imparato che i nostri gesti quotidiani, la percezione e l’interpretazione del mondo vengono da una struttura profonda e pervasiva, tanto più efficace quanto più risulta invisibile perché, in tal modo, può replicarsi in libertà producendo e riproducendo codici, valori, pratiche, credenze e visioni attraverso cui noi continuiamo a leggere la realtà e a interagire con essa.

La cultura dello stupro è parte di questa struttura.

Anche quando si tratta di ‘piccole cose’, quelle che sembrano inezie, che possono essere facilmente mascherate da gioco o spiritosaggine…

È di qualche giorno fa (12 luglio) la sentenza che assolve un collaboratore scolastico di 66 anni per una “palpata” a una studentessa minorenne.

Nella testimonianza durante il processo, la studentessa che ha accusato il bidello ha dichiarato che, dopo aver salito le scale entrando a scuola, «mentre si stava tirando su i pantaloni che le erano scesi dalla vita, sentiva da dietro delle mani entrarle nei pantaloni, sotto gli slip».

Nella sentenza i giudici hanno scritto che le dichiarazioni della studentessa «sono apparse pienamente credibili». Inoltre la sua versione dei fatti è stata supportata anche dalla testimonianza di altre persone. Secondo i giudici, però, non sono emerse prove sufficienti per «formulare, senza alcun ragionevole dubbio, un giudizio di responsabilità dell’imputato».

Nelle motivazioni della sentenza si legge che alcune caratteristiche del gesto del bidello «non consentono di configurare l’intento libidinoso o di concupiscenza generalmente richiesto dalla norma penale» per definire un gesto una violenza sessuale (quello considerato dall’articolo 609 del codice penale). Tra le caratteristiche considerate del gesto in questione ci sono la sua velocità «tra i 5 e i 10 secondi», l’intenzione «senza alcuna insistenza nel toccamento, da considerarsi quasi uno sfioramento»; il luogo e il tempo in cui è stato compiuto, ossia «in pieno giorno in locale aperto al pubblico e in presenza di altre persone»; e le modalità con cui è stato compiuto, conclusosi alla fine con «il sollevamento della ragazza».

Secondo i giudici il gesto del bidello lascia «ampi margini di dubbio sulla volontarietà nella violazione della libertà sessuale della ragazza» e quindi è convincente la tesi del bidello secondo cui si è trattato di uno scherzo, sebbene «sicuramente inopportuno», frutto di una «manovra maldestra». Per questo motivo il bidello è stato assolto perché «il fatto non costituisce reato».

Si tratta di una sentenza di primo grado, vedremo come andrà a finire…

Ma, intanto, qualche domanda noi donne, noi madri di giovani ragazze ce la poniamo: chiunque ci può toccare il sedere, anche se non vogliamo, basta che duri poco? Basta che sia fatto di giorno e in un luogo pubblico e davanti ad altre persone? Se questa è la logica che muove i ragionamenti dei giudici, cosa diranno le nostre sorelle, le nostre figlie, le nostre amiche quando le incoraggeremo a denunciare se dovesse capitare a loro, per cambiare anche in questo modo la mentalità che autorizza gli uomini a ‘scherzare’ con il nostro corpo? Sentenze come questa sono pericolose, disincentivano le donne a denunciare le violenze subite, allontanano le donne dalle aule di giustizia facendo ragionevolmente perdere la fiducia nelle istituzioni. Per un approfondimento https://www.centrodonnapadova.it/articoli/2-centro-progetti-donna/788-palpata-troppo-breve-cosa-succede-nei-nostri-tribunali.html

Il libro scritto dalla giudice Di Paola “La mia parola contro la sua” è un libro da leggere: racconta in maniera precisa e tagliente i pregiudizi nelle aule di tribunale, dimostrando come il luogo in cui dovrebbe regnare la verità è invece troppo spesso anch’esso regolato dallo stereotipo nei confronti della relazione tra i sessi.

“Le donne mentono sempre”. “Le donne strumentalizzano le denunce di violenza per ottenere benefici”. “Se l’è cercata”. “Le donne usano il sesso per fare carriera”. “Ma tu com’eri vestita?”

Questi sono solo alcuni dei pregiudizi che da tempo immemore la nostra società ha interiorizzato, perpetuando una sudditanza e una discriminazione di genere in ogni settore, anche in quello giuridico, che è un settore determinante perché tutto possa rimanere come è sempre stato.

Da questo condizionamento interiorizzato e diffuso possiamo e dobbiamo liberarci mettendolo in luce, noi stesse per prime, per decostruirlo e evidenziarne agli occhi di tutte e tutti le caratteristiche in modo da poter cambiare le basi culturali e materiali che portano alla subordinazione delle donne.

Rimando qui, pertanto, all’articolo scritto due anni fa  https://www.padovanabassa.it/la-cultura-dello-stupro/ aggiungendo una breve integrazione della parte che riguardava i primi processi per stupro: un processo avvenuto nella nostra regione nel 1976 che è stato segnato da una importante vittoria per le donne e il movimento femminista.

Fu il processo a una sedicenne di Verona che nel 1976 cercava di avere giustizia e che fu il primo processo per stupro a porte aperte: la forte mobilitazione del movimento femminista, d’intesa con la parte civile, riuscì a trasformare il processo in un’azione politica contro la parzialità dei giudici e la vittimizzazione secondaria. E, di nuovo, Tina Lagostena Bassi assunse la difesa e chiese che il giudice fosse ricusato. Il valore simbolico e l’impatto mediatico della vicenda, seguita in diretta da tutti i mass media, Rai compresa, portarono il tema della violenza al centro del dibattito. L’importanza di questo processo sta anche nel fatto che, per la prima volta, un coordinamento di gruppi femministi chiese alla Corte di esser presente al processo non solo per solidarietà nei confronti della parte civile, ma sulla base di una comune identità di genere, denunciando lo stupro quale espressione di un potere maschile secolare e di una gerarchia di genere profondamente radicata, con una mobilitazione che coinvolse migliaia di donne in città e in regione. Ad esser messa sotto accusa è stata la stessa istituzione giudiziaria, di cui venne svelata la falsa neutralità, la connotazione maschile di codici e procedure, la cultura solidale con lo stupro imperante nelle aule dei tribunali. A seguito di questa grande mobilitazione, una sentenza riconobbe per la prima volta il movimento femminista come soggetto collettivo, accogliendo la richiesta avanzata dalle avvocate di parte civile di un risarcimento a suo favore, destinato a sostenerne iniziative di contrasto alla violenza sessuale.

Un prezioso lavoro di ricerca e di ricostruzione di Nadia Maria Filippini, dal titolo Mai più sole contro la violenza sessuale, racconta quegli avvenimenti.

Da quei processi, per quasi cinquant’anni ormai, il movimento femminista ha continuato a denunciare lo stupro in quanto espressione di un potere maschile secolare e di una gerarchia di genere profondamente radicata; ha continuato a mettere in luce come la cultura patriarcale – consolidata, diffusa e resa invisibile da secoli di consuetudini – continui a far apparire naturale quello che naturale non è: il far passare la dignità e il valore di una donna per il suo comportamento sessuale rendendo forte lo stigma familiare e sociale che tale comportamento potrebbe provocare.

Uno stigma con cui ogni singola donna che denuncia una violenza deve, ancora oggi, fare i conti. E che è uno dei principali motivi per i quali spesso, alla fine, decide di non farlo. Chi lo fa, sa che va incontro ad un percorso complicato e che potrebbe uscirne con le ossa rotte…

Per il loro serio e decennale lavoro, i centri antiviolenza stanno diventando sempre più punto di riferimento e sostegno per le donne che subiscono violenza da parte, quasi sempre lo ricordiamo, del proprio partner; sempre più donne, con un profondo lavoro su di sé e sulla scia di pratiche femministe diffuse, sono in grado di vedere oltre il velo delle apparenze e sanno leggere le imposizioni culturali che limitano la possibilità di essere pienamente sé stesse con attenzione a non trasmettere alle figlie e ai figli, alle studentesse e agli studenti gli stessi valori su cui è fondata la società patriarcale; alcuni uomini provano a cambiare, mossi dal desiderio di costruire un futuro in cui il modello culturale maschile egemonico si allontani dalla prevaricazione e dalla ricerca del potere per dare spazio all’ascolto delle  emozioni e al rispetto dell’altra da sé; sempre più donne oggi possono avvalersi della loro forza, della loro potenza senza dover necessariamente aderire alle forme di potere maschili ma, anzi, lavorando alla loro rottura facendo leva su quegli elementi preziosi che hanno imparato dal loro vissuto e che la società continua a recepire come elementi estranei e perturbanti.

Ma, ancora, è necessario continuare a porsi domande di fronte a una battuta, a uno sguardo, a una raccomandazione fatta alle nostre figlie, a una condiscendenza di fronte a certi atteggiamenti prevaricatori dei nostri figli, alle parole usate sui giornali, sui media, sui social….

Ancora è necessario costruire solidarietà fra donne e sorellanza, ancora è necessario seguire e inventare pratiche di libertà trasformativa e generativa.

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