Come una rana d’inverno

Daniela Padoan raccoglie, in questo libro, le sue interviste a Liliana Segre, Goti Bauer e Giuliana Tedeschi, sopravvissute al campo femminile di Auschwitz-Birkenau.

L’intento dell’autrice è quello di allargare l’ambito di riflessione sulla Shoah concentrandosi sull’esperienza dello sterminio vissuto dalle donne.

Il titolo deriva dal celebre incipit di “Se questo è un uomo” di Primo Levi:

“Considerate se questa è una donna

Senza capelli e senza nome

Senza più forza per ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.”

L’autrice chiede alle tre intervistate se è utile riflettere sull’esperienza delle donne durante la deportazione e nel Lager. Ecco le loro risposte.

Liliana Segre

“Certamente.

Nel Lager ho sentito con molta forza il pudore violato,

il disprezzo dei nazisti maschi verso noi donne offese.

Non credo che gli uomini provassero la stessa cosa.”

Secondo Segre le donne ebree furono ulteriormente umiliate in quanto generatrici di un popolo considerato odioso.

“Mettere nudo un uomo davanti ad un altro uomo è senz’altro una cosa umiliante e terribile. […] Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta ad un oltraggio ancora maggiore.

Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo.

Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, ti ritrovi nuda assieme ad altre disgraziate. […]

Sei terrorizzata e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne nude che vengono rasate e tatuate.”

Durante le famigerate selezioni “Le donne sfilavano per essere lasciate in vita o per essere messe a morte, sempre nude, tra i soldati in divisa.”

Durante la doccia “passavano i soldati sbeffeggiandoci.”

Il dileggio delle SS era molto frequente:

“Era questo sprezzo ad essere intollerabile,

questo ridere di noi, questo punire ogni minima disobbedienza facendoci stare inginocchiate nude per ore. La nudità è stata una costante e io l’ho vissuta come una grande persecuzione morale, aggiunta ad una situazione già di per sé terribile.”

All’inizio Segre e le compagne erano preoccupate per le mestruazioni ma lo spavento e il digiuno furono così violenti che queste si bloccarono, mentre il corpo perdeva le sue forme.

Segre ricorda la disperazione delle madri che non sapevano più nulla dei loro bambini.

“Non so se per un uomo la paternità, per quanto sentita e importantissima, sia come la maternità.

[…]

Ho conosciuto una ragazza che si è scoperta incinta là dentro. Cosa sarà stato di lei? L’avranno ammazzata? L’avranno fatta partorire? Sono cose che ad un uomo non potevano capitare.”

“Quando vado nelle scuole femminili mi viene fuori una testimonianza al femminile in cui

l’essere senza capelli, la perdita delle mestruazioni, la scomparsa del seno, il vestito sbrindellato, la faccia sciupata, la mancanza di uno specchio, diventano elementi del racconto molto più importanti che quando testimonio davanti a uomini e donne insieme.”

Le donne del campo però non erano solo le deportate ridotte a schiave ma anche le carnefici:

le donne SS e le Kapo (capoblocco o capobaracca).

L’ultimo gradino della gerarchia era rappresentato dalle donne ebree (i triangoli gialli) poiché le altre categorie di prigioniere (rom, delinquenti comuni, politiche, prostitute e asociali) non subivano le selezioni, non venivano eliminate nelle camere a gas, facevano lavori meno pesanti e ricevevano un pasto migliore.

Le donne zingare, in particolare, vivevano in un campo con le loro famiglie (nel 1944 i rom di Auschwitz vennero sterminati).

“Per me è stato terribile rendermi conto che le peggiori efferatezze venivano compiute da donne su altre donne. Le Aufseherin, le sorveglianti, erano donne SS.”

Le Kapo erano invece prigioniere distintesi per la loro crudeltà, “facevano di tutto pur di farsi vedere all’altezza delle loro superiori”. Potevano essere delle criminali, delle politiche o addirittura delle ebree.

Segre ricorda che un’ex deportata le ha raccontato che, tornata a casa, i genitori l’hanno apostrofata con un Cosa hai fatto per cavartela? Si dava per scontato che la donna fosse andata a letto con tutti, per cavarsela, mentre a nessuno veniva in mente di chiedere ad un uomo se si fosse prostituito. L’altro sospetto era: Sei diventata una Kapo?”

Goti Bauer

Sul come è stata vissuta l’esperienza della Shoah “penso che dipenda molto dalla sensibilità individuale” più che dal genere.

Bauer parla del viaggio di una settimana nei vagoni bestiame del treno della deportazione, dove erano stipate una cinquantina di persone per vagone, e ricorda in particolare “le madri angosciate per i propri figli e i figli che tentavano di consolarle”, “i pianti dei bambini e la disperazione delle madri che non sapevano come tranquillizzarli”.

Era il maggio del ‘44 e la prima selezione fu rapidissima, quindi molto approssimativa, dato che era in corso la grande deportazione dall’Ungheria (seicentomila persone) e arrivavano convogli in continuazione. Mengele mandava a destra i giovani e a sinistra gli anziani, i malati, le persone dall’aspetto stanco ma anche tutte le giovani madri che, seppur idonee a diventare lavoratrici schiave, non avevano voluto staccarsi dai loro bambini. La prima selezione fu seguita da molte altre.

Dopo la doccia, avvenuta nel blocco della quarantena di Birkenau (il Lager più propriamente di sterminio poiché c’erano i crematori oltre al Lager femminile), “le SS, donne e uomini, con i loro cani passavano avanti e indietro, ridacchiando davanti a quello spettacolo indecoroso di povere donne nude” alle quali furono distribuiti stracci e scarpe spaiate. Sarebbero poi riuscite a trovare del vestiario meno grottesco barattandolo con dei pezzi di pane presso il magazzino di stoccaggio dei beni confiscati ai prigionieri, per lo più ebrei, denominato Canada.

“Per quello che si riferisce al dramma specifico delle donne,” oltre alle giovani madri mandate al gas coi propri piccoli anche Bauer ricorda donne in gravidanza senza che i carnefici se ne fossero accorti e la perdita del ciclo mestruale.

Di mamme che potessero prendersi cura delle giovani ragazze ce n’erano molto poche e soprattutto non sono sopravvissute, se non in casi rarissimi, infatti le Kapo si accanivano in particolare contro queste donne. Provavano rabbia e invidia nei loro confronti perché erano in vita mentre le loro madri erano state eliminate.

Per quanto riguarda la nudità (durante le disinfezioni, le docce e le selezioni) Bauer sostiene che ebbe un grande impatto all’inizio ma che poi divenne talmente frequente da viverla con rassegnazione e in modo meno drammatico dato che capitava contemporaneamente a tutti.

Violenza sessuale non ce n’era. Non per rispetto a noi ma perché a loro era proibito avere rapporti con chi era considerato di ‘razza inferiore’, visto che non volevano inquinare la loro ‘purezza ariana’.” È comunque avvenuta ma in rari casi e Bauer e le sue compagne non l’hanno subita.

Giuliana Tedeschi

“Penso proprio di si. Tutta la mia esperienza nel Lager è stata segnata dal mio essere donna.

Al momento della deportazione ho lasciato in Italia le mie due bambine, che si sono salvate per miracolo. Sono salva anch’io per questo motivo. Se mi avessero presa con le bambine sarei finita subito al gas, insieme a loro.

[…] Ma il legame con i figli non è l’unica differenza … Sono convinta che, fisicamente, le donne abbiano subito traumi superiori a quelli sopportati dagli uomini.

[…] Arrivare lì, ad Auschwitz, e perdere subito tutti i capelli, sentire quella macchinetta fredda che  solca il cranio. Credo che un uomo non ne possa rimanere altrettanto scosso.”

Tedeschi, rispetto alle altre testimoni che al tempo non erano ancora madri, sottolinea il dolore per il distacco dai figli (“Per un uomo è diverso. Un uomo non sta in casa con i bambini, non li segue in tutte le fasi della loro crescita … Io ho sentito profondamente, proprio perché sono donna, la separazione dalle mie due figlie.”) e rispetto al fatto di essere state costrette a indossare non i loro abiti ma stracci incongrui e scarpe spaiate dopo la prima doccia aggiunge che “Agli uomini veniva data una divisa a righe che conferiva loro una sorta di identità, per quanto ignobile. Noi eravamo irrise anche in quello.”

In un reparto di una baracca del Lager, detto “blocco delle esperienze”, venivano eseguiti gli esperimenti sulle prigioniere “soprattutto sulle parti genitali anche se mi risulta che venissero studiate pure altre situazioni che non avevano un particolare nesso con la riproduzione.”

I civili tedeschi erano destinatari degli oggetti in buono stato sottratti ai prigionieri,

“Persino le carrozzine per i bambini.”

Tedeschi ricorda un corteo di una cinquantina di donne, disposte nella solita fila per cinque, costrette a spingere carrozzine fino al magazzino di smistamento del bottino dei convogli.

“Non posso pensare cosa devono aver provato le madri i cui bambini erano finiti nel crematorio.”

Secondo Tedeschi le donne si sono aiutate molto più degli uomini.

“Non ho mai letto uno scritto di un uomo che abbia insistito sulla solidarietà”, sulla relazione, sullo scambio con l’altro.

“Le donne sono maglie, se una si perde si perdono tutte. Là dentro almeno era così.”

Nelle prime selezioni ad Auschwitz, le donne e i bambini costituirono il 60-70 per cento di coloro che vennero inviati nelle camere a gas.

Non si sa esattamente quante fossero le donne, i dati storiografici non danno indicazioni per genere ma i rapporti degli ufficiali nazisti del campo dicono che le donne scampate alla prima selezione avevano un’aspettativa media di vita di tre mesi e che la mortalità era più alta che tra gli uomini.

Primo Levi, nella sua prefazione a Il fumo di Birkenau di Liana Millu, sostiene che la condizione delle donne era peggiore di quella degli uomini a causa di lavori più pesanti e umilianti e per la presenza ossessiva dei crematori all’interno del campo femminile.

La letteratura di testimonianza è stata prodotta soprattutto da uomini e benché vi siano opere femminili fondamentali¹, sono maschili i testi più conosciuti.

Nel dopoguerra pochi erano interessati a queste storie ma dopo che alcuni giornali pubblicarono articoli sull’argomento si cominciò a credere ciò che si era ritenuto impossibile,

ad ascoltare storie che non si è mai realmente pronti ad ascoltare poiché portano ad interrogarsi sulle derive che l’uomo è in grado di intraprendere.

Gli scrittori, Primo Levi in particolare, pubblicarono perché sentivano il dovere della testimonianza, ma le scrittrici furono molte meno, per vari motivi:

molte sopravvissute non si sentivano in grado di scrivere un libro e ritenevano ci fossero persone più adatte a farlo, volevano lasciarsi alle spalle un periodo che in realtà mai hanno potuto dimenticare e non volevano traumatizzare i propri figli pubblicando le loro storie così crude e dure.

Tre capitoli, ciascuno dedicato a una testimonianza, che si intrecciano dato che riguardano tre donne deportate, nello stesso anno, ad Auschwitz.

Un resoconto finale che, tra l’altro, motiva il perché della poca propensione delle donne a testimoniare, se non in tarda età.

Un’autrice che ha voluto approfondire un aspetto poco esplorato dei Lager, convinta che a tenere le donne nel silenzio per tanti anni sia stata l’assenza di domanda e di un vivo interesse ad ascoltarle perché, da sempre, più associate alla dimensione privata che a quella pubblica.

Un interessante lavoro di ricerca volto ad ampliare la conoscenza sull’esperienza e la testimonianza delle donne sopravvissute.

¹

Ecco un elenco di scrittrici, testimoni della Shoah, citate dall’autrice:

Charlotte Delbo, Un treno senza ritorno

Edith Bruck, Signora Auschwitz

Elisa Springer, Il silenzio dei vivi

Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo e C’è un punto sulla terra

Liana Millu, Il fumo di Birkenau

Lidia Beccaria Rolfi, L’esile filo della memoria

Margarete Buber-Neumann, Milena l’amica di Kafka

Ruth Kluger, Vivere ancora

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L’associazione Donne in ekopark propone a Monselice, in occasione dell’ 8 marzo, una serie di incontri su donne e guerre:

Ecco il link alla recensione del libro “Le tre ghinee” presente in questo sito:

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